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venerdì 30 marzo 2018

IL GIUSTIZIERE DELLA NOTTE

di Matteo Marescalco


Nella Chicago dei giorni nostri, Paul Kersey è un medico chirurgo da sempre dedito al suo lavoro. Conduce un'esistenza tranquilla e felice con la moglie e la figlia adolescente, calciatrice e fresca di ammissione in un college newyorkese. Le giornate di Kersey trascorrono tra impegni medici e situazioni idilliache con familiari ed amici. A fare da sfondo è una città cupa, costantemente illuminata dalle luci al neon di ambulanze e pattuglie di polizia, alle prese con numerosi crimini notturni. Ma la routine quotidiana del medico è sconvolta quando tre balordi irrompono a casa sua per fare una rapina, uccidono la moglie e feriscono gravemente la figlia, riducendola in fin di vita. L'evento richiama in Paul Kersey il forte desiderio di vendetta e lo trasforma in un mietitore unbreakable, deciso a colmare da sé i vuoti della giustizia americana.

In corrispondenza dell'incidente scatenante, c'è un passaggio che preannuncia la trasformazione del tessuto del film ed il suo rapido scarto verso binari più congeniali al suo autore. Uno dei rapitori minaccia con un coltello a serramanico la figlia di Kersey ma viene prontamente richiamato da un suo sodale, che gli dice: «Ehi, il capo ha detto niente giochetti! Sei sordo? Metti via quell'affare». La carica gore e da torture porn del cinema di Eli Roth, rimembrante della sua indole horror, viene appena accennata e posta dietro l'angolo delle infinite tempistiche della giustizia e delle campagne pubblicitarie in favore delle armi che finiscono per influenzare il mite chirurgo, pronto ad entrare nell'ostello delle proprie perversioni.

martedì 27 marzo 2018

INTERVISTA CON UN GIOVANE SCRITTORE: JACOPO ZONCA, AUTORE DEL ROMANZO 52 49

di Matteo Marescalco

Incontro Jacopo Zonca sotto il tiepido sole di una Roma che abbraccia con fare deciso l'entrante stagione primaverile. Il cortile interno del Centro Sperimentale di Cinematografia attenua il calore della giornata ed ospita il nostro dialogo su 52 49 (edito da Epika Edizioni di Lorella Fontanelli ed acquistabile in formato tradizionale o in Kindle presso tutti gli store digitali), romanzo di debutto del giovane autore originario della provincia di Parma. Zonca è visibilmente emozionato per questa sua prima intervista, anche se ha già presentato il romanzo nella Saletta Adorno di Parma, ed è prossimo all'anteprima romana presso la Libreria Sinestetica di Conca d'Oro.

Il racconto è incentrato sulla figura di Filippo, ragazzo benestante ed eterno disoccupato che trascorre le giornate organizzando il da fare per il prossimo weekend. Filippo sembra aver ricevuto tutto dalla vita: soldi in abbondanza, una bella casa e un'automobile tutta per sé. Quando meno se lo aspetta, però, la monotona routine gli riserva un evento traumatico. Il ragazzo decide, allora, di cambiare rotta e di imboccare, con molta fatica, un percorso che lo porterà a seguire nuovi stimoli e ad abbandonare la vecchia vita. Ma, per citare Magnolia di Paul Thomas Anderson: «We may be through with the past, but the past is never through with us».

La citazione non è casuale perché Jacopo Zonca, oltre ad essere un grande estimatore del lavoro del regista californiano, si è trasferito a Roma per studiare Recitazione, Regia e Sceneggiatura all'Accademia di Cinema e Televisione Griffith e presso la Fonderia delle Arti Scuola di Cinema di Roma. Le sue partecipazioni a teatro, nel ruolo di attore e drammaturgo, vanno da Personalità Borderline di Fabrizio Catarci presso il Teatro lo Spazio di Roma a Tu sei la mia patria: Racconti della grande guerra di Francesco Sala; e, ancora, dal ruolo di protagonista principale nel monologo Dio c'è, diretto e scritto da Pietro De Silva, fino ad una serie di cortometraggi realizzati da diversi committenti (la Web Series Shots e lo Shakespeare Fest del Globe Theatre diretto da Gigi Proietti).

«Jacopo, ti vedo emozionato. Eppure hai recitato in teatro e davanti alla macchina da presa, hai scritto monologhi drammatici che hanno ricevuto pareri positivi e sei quindi abituato a sopportare su di te sguardi altrui. Con 52 49, debutti, e devo dire molto bene, nel mondo del romanzo. Cosa cambia nello sviluppo di una narrazione tra un monologo, un corto destinato al web, una sceneggiatura ed un romanzo?».
«La sceneggiatura è il regno delle azioni dei personaggi e dei dialoghi; un racconto su carta non finalizzato ad essere trasposto può, invece, esplorare molto meglio le psicologie dei personaggi, rischiando dei momenti di lentezza che una sceneggiatura difficilmente può permettersi. Quindi, cambia la modalità di scrittura. La sceneggiatura è molto più schematica e fredda, anche se io sono un po' della scuola opposta. Amo le sceneggiature più romanzate e che coinvolgano anche gli attori. Per la stesura di un racconto, sei molto più libero nella descrizione dei pensieri e degli stati d'animo dei personaggi. Ho scelto di scrivere in forma letteraria perché ho studiato sceneggiatura e credo che scriverne una sia molto difficile. In effetti, volevo scrivere un racconto che fosse una sorta di ibrido tra lo stile di una sceneggiatura ed un romanzo. Almeno questa era l'ambizione. La sceneggiatura è un oggetto di lavoro finalizzato alla sua trasformazione in racconto audiovisivo e, tutto sommato, credo che 52 49 possa anche essere adattabile per lo schermo».

«Quindi, mentre un racconto vive di per sé, la sceneggiatura è soltanto uno strumento di transito».
«Esatto, la sceneggiatura è il film su carta. È già difficile trovare persone che investano su di te. Figuriamoci per la realizzazione di un corto che si basa su una macchina produttiva molto più ampia».

«In 52 49 mi hai dato la sensazione di aver lavorato su storie che sono già state lette e che, magari, riguardano anche le tue passioni ed investono le tue emozioni. In che modo hai maneggiato gli archetipi e ti sei approcciato al già visto/già letto?».
«Oltre ad aver studiato Recitazione, ho anche seguito dei corsi di Regia e Sceneggiatura in cui ci venivano chiesti i nostri autori di riferimento. Questo non per scimmiottare il loro stile. Piuttosto per assimilarlo e proporne una rilettura. Ho semplicemente raccontato una storia già ampiamente letta e vista. Ma l'ho fatto a modo mio. Per quanto riguarda la scrittura vera e propria, ho scelto uno stile classico, basata sull'arco di trasformazione del personaggio principale. Possiamo anche parlare di tradizionale viaggio dell'eroe e di struttura in tre atti. Lo schema di evoluzione del personaggio verso una determinata direzione è necessario. Stravolgere una struttura classica che funziona ed è perfetta è inutile».

«Insomma, sei un sostenitore della struttura classica».
«Assolutamente. Solo conoscendo bene gli schemi classici puoi maneggiare meglio il tuo materiale».

«Quanto è stato complesso il percorso produttivo di 52 49? Hai mai pensato al rifugio nell'autopubblicazione?».
«Ho iniziato a scrivere a Novembre 2016 e ho completato la primissima stesura nel giro di una ventina di giorni. Mi sono imposto di scrivere convinto di dover buttare giù determinati sentimenti, senza ancora pensare ad una pubblicazione. È inutile girarci attorno: se scegli di scrivere, l'obiettivo è  quello di farti leggere. Chi sceglie una carriera del genere è fondamentalmente un narcisista. Chi dice il contrario è uno che racconta delle balle. Diciamo che questo narcisismo deve essere bilanciato da una notevole dose di onestà nei confronti del proprio pubblico. È giusto scrivere ciò che si vuole ma pensando sempre ad un pubblico di riferimento. Scrivere ha agito come una valvola di sfogo per provare a superare un periodo che per me è stato emotivamente difficile. La stesura delle varie situazioni mi ha poi spinto a riorganizzare il tutto curando maggiormente la confezione. Per quanto riguarda il versante produttivo vero e proprio, la mia prima bozza era molto più corta della versione definitiva di 52 49. Finito il racconto, ho iniziato a mandarlo in giro, pensando a pubblicazioni per case editrici online. I tempi, probabilmente, non erano ancora maturi. L'estate successiva, ho continuato a guardarmi attorno, rivolgendomi soprattutto alle case editrici del Nord. Sono entrato in contatto con la casa editrice Epika di Lorella Fontanelli. Ho contattato l'editrice e si è creato un bel rapporto. Ascoltando i suoi consigli ed adattandomi alle sue richieste, com'è giusto che sia, sono riuscito ad ottenere la sua fiducia. Dopo un anno circa, 52 49 ha visto la luce».

«A questo proposito, la storia dell'editoria è costellata di rapporti difficili tra editore e scrittore, con il primo ad ingabbiare il secondo che, a sua volta, lo accusa di dispotismo. Qual è stato il fine del lavoro editoriale sul tuo romanzo? Apportare modifiche in vista di un ben determinato target o correggere, piuttosto, il tiro della storia?».
«Io tengo in gran considerazione la mediazione editoriale. Se ti fidi di una persona, capisci che certi consigli sono molto utili. Ascoltare e mantenere sempre la propria identità sono due aspetti fondamentali. Creare un rapporto di contatto umano e fare in modo che l'editore capisca il tuo carattere consente di accelerare anche con il lavoro. Per quanto riguarda il pubblico di riferimento, credo di rivolgermi soprattutto ai giovani perché ovviamente il loro target è il più vicino al mio. Finora mi ha fatto piacere ricevere consensi insospettati da parte di persone che credevo avrebbero fatto a pezzi il mio libro. Probabilmente, evitare di distinguere in modo netto tra buoni e cattivi ha aiutato a sfumare i personaggi e a catturare l'attenzione anche di persone un po' più in là con l'età».

«Uno degli aspetti del libro che mi ha maggiormente colpito risiede nel modo in cui sei riuscito a calarti nelle personalità dei singoli personaggi. In effetti, come hai tradotto in scrittura la psiche dei diversi personaggi? Assumi il punto di vista di Filippo (il protagonista), dei genitori e di altri amici, caratterizzando ognuno con tratti peculiari. Parlami un po' di questo aspetto».
«Per quanto mi riguarda, ogni scrittore deve essere anche uno spettatore. Ciò che scrivi ti deve piacere. Io ho applicato uno stile che amo in altri autori. Durante la lettura e la scrittura, è come se avessimo una macchina da presa in testa a cui cambiare le varie ottiche. È come se le ottiche corrispondessero alle scelte stilistiche. Usando uno stile frenetico, ho provato a trasportare il lettore all'interno della vicenda per coinvolgerlo al massimo. L'autore che mi ha maggiormente influenzato è Irvine Welsh. Lui fa parlare i suoi personaggi in un dialetto scozzese rielaborato. Ho provato, più o meno, ad applicare il suo stesso metodo: utilizzare un linguaggio che sembrasse del Nord ma che comunque fosse comprensibile un po' per tutti. Aver studiato dizione mi ha aiutato a concentrarmi meglio sul linguaggio e sui difetti di pronuncia di ognuno di noi. Ho anche guardato molto ad Anthony Burgess e al suo Arancia Meccanica in cui i personaggi parlano il cosiddetto Nadsat, uno slang a metà tra l'inglese ed il russo. Mi piaceva il fatto che i miei personaggi usassero dei termini inglese in modo abbastanza naturale e che questo fosse il loro marchio di fabbrica».

«Hai già nominato Irvine Welsh ed Anthony Burgess. Io aggiungo Stanley Kubrick (regista di Arancia Meccanica). Passo nuovamente la palla a te».
«Sicuramente Bret Easton Ellis e Stephen King. L'amore per la lettura e per un certo tipo di racconto di ampio respiro deriva dal secondo. Amo particolarmente David Foster Wallace che, però, è davvero inimitabile ed irraggiungibile».

«Tornando al romanzo, non ho trovato tante descrizioni di ambienti esterni. Tu porti in scena la psiche dei tuoi personaggi ed approfondisci questo universo. Leggendo il tuo libro, mi sono sentito quasi isolato, ho avuto la sensazione di essere in un acquario. Sembra non esistere un mondo esterno, almeno fino all'irruzione di Erika, che rompe una routine quotidiana circolare. 52 49 non mi è sembrato un libro sulla tossicodipendenza quanto un racconto sul raggiungimento di un attimo di bellezza e di felicità. In questo aspetto, mi hai ricordato tanto Ti prendo e ti porto via di Niccolò Ammaniti: l'esplosione di attimi di bellezza fortissimi ed inaspettati funziona davvero. Non so quanto tu sia d'accordo con me».   
«La penso come te. La mia non è una storia sulla droga né io ho avuto l'ambizione di parlare di un universo tanto sfaccettato ed ampio come il suo. La vicenda della tossicodipendenza mi è stata d'aiuto nella detonazione del racconto. Definirei 52 49 una storia di crescita. Sulla tua bella definizione di acquario sono d'accordo. Tutti i personaggi vorrebbero uscire dalla loro bolla senza riuscirci. Ne consegue un'ulteriore chiusura su sé stessi».

«Negli ultimi anni, la tua vita è stata segnata da continui viaggi tra Parma e Roma. In una nostra precedente chiacchierata, hai detto di sentire spesso la nostalgia di casa. Ho notato che, in 52 49, Filippo ricorre agli stupefacenti soprattutto quando è a casa. I problemi lo opprimono e mi sembra che la casa e l'idea di famiglia non facciano proprio una bella figura. È vero che i luoghi chiusi non se la passano bene nel tuo racconto?».
«Io vengo da un paesino in provincia di Parma e ogni luogo del genere ha delle contraddizioni di fondo. In casa sua, Filippo vive una vita apparentemente perfetta: televisorone e dvd a valanga. Ma in questa casa è sempre solo. Quindi, la casa è un rifugio ma è anche una prigione. È un po' la stessa idea che ha del carcere Red Redding de Le ali della libertà: un luogo di prigionia ma anche una sorta di casa da cui ha paura di andar via».

«Con il solo protagonista e senza personaggi di contorno, nessun racconto potrebbe realmente esistere. Si tratta di una parte dell'esergo della mia laurea triennale. Ho inserito questa frase perché ho l'idea che, specialmente per un fuori sede, sia necessario stabilire una serie di relazioni che possano aiutare nei momenti di difficoltà. Credo che ognuno di noi, da solo, valga ben poco se non è circondato da altre persone che lo affiancano. Nel caso di Filippo, le delusioni derivanti dalla compagnia sbagliata di amici hanno un loro peso specifico nella sua tossicodipendenza. Quali sono le tue idee a tal proposito?».
«Anche se dalla storia potrebbe sembrare il contrario, io ripongo totale fiducia nei giusti rapporti di amicizia. La solitudine di Filippo è una solitudine che io ho provato anche se ci tengo a sottolineare che il personaggio non è autobiografico. Si tratta di una condizione che non riguarda tanto le persone che hai incontrato o le situazioni che hai vissuto ma più che altro uno stato mentale. Ho conosciuto persone pressoché sole che però erano comunque felicissime. Altre persone, invece, sotto un'apparenza felice e caratterizzata da un gran numero di amici, erano profondamente tristi. La solitudine andrebbe rapportata al nostro mondo interiore. Filippo avverte un profondo vuoto che non riesce a colmare. L'acquario di cui parlavi prima è una sorta di vetro che lui ha davanti gli occhi e che, in qualche modo, lo protegge. Allo stesso tempo, però, lo distrugge completamente».

«Mi fermo di nuovo sulla famiglia, che mi sembra tornare con una elevata dose di problemi e promiscuità anche in Pictures, un tuo monologo di qualche tempo fa».
«Esatto. Pictures è un monologo che ho scritto e diretto per uno spettacolo a tappe composto da monologhi e presentato a Roma. Ho poi depositato il brano e l'ho inviato a svariati concorsi, nello stesso periodo in cui inviavo 52 49 alle case editrici. Poi ho presentato il brano al concorso Monologando di Padova e sono arrivato terzo su centottantaquattro partecipanti. Per me è davvero un motivo di grande soddisfazione».

«Quindi possiamo affermare che Pictures nasca dallo stesso background di 52 49? Ripenso ad una frase di Stephen King che sostiene che l'amore abbia i denti. I denti poi mordono e i morsi non guariscono mai. Sia in Pictures sia in 52 49 si parla di amore. Da un lato si tratta di amore genitoriale; dall'altro non solo di quello».
«Sì. L'intuizione è corretta. Filippo è un personaggio cinico ma possiede comunque la capacità di innamorarsi. Credo che l'amore sia fondamentale per la crescita personale a prescindere da come un rapporto vada a finire. Le emozioni provate saranno sempre custodite. L'amore produce sempre una trasformazione, in positivo o in negativo, e può anche produrre la sofferenza che più si avvicina al lutto. Pictures e 52 49 sono entrambi animate da amori al limite».

«Ci apprestiamo alla conclusione del nostro dialogo con un approdo sulle spiagge cinematografiche».
«Il cinema è molto presente in 52 49. Non tanto sotto forma di omaggio ai miei miti quanto come possibilità di fornire a Filippo un modo per staccare la spina. Nella prima parte del romanzo, Filippo è più legato ad un cinema popolare. L'innamoramento totale avverrà grazie a Paul Thomas Anderson, un regista che ama ogni suo singolo personaggio, anche il più cattivo. Quando ho visto Magnolia per la prima volta, sono rimasto scioccato dalla maturità del film e dall'ampiezza dell'esperienza vissuta».

«Cosa ami maggiormente nei personaggi di Anderson? In cosa consiste quella luce che Filippo percepisce nei suoi film?».
«Tutti i personaggi di Anderson si sentono in qualche modo distaccati dalla realtà e molto colpevoli. Hanno tutti un rapporto difficile con la famiglia, anche in un film apparentemente più leggero come Ubriaco d'amore, il rapporto tra Adam Sandler e le sue sorelle è terribile. La loro è una condizione di alienazione ma tutti, più o meno, hanno il vivissimo desiderio di esserci, di amare e di soffrire. Di condurre una vita che, nonostante tutto, si ponga un sogno e un obiettivo. I suoi personaggi sono dannatamente umani, con tutti i loro pregi e i loro difetti».

«Per concludere, perché hai scelto di dare questo titolo al tuo romanzo?».
«Per me 52 49 indica una mediazione tra la realtà romana e quella del mio paesino, Vigatto. 52 49 è una particolare dimensione in cui coltivare una certa tranquillità e pace interiore. È una sorta di tramite per il raggiungimento di un equilibrio mentale. Ovviamente, leggere il romanzo aiuta a capire meglio il significato alla base della scelta di questi due numeri».

«Jacopo, il romanzo è una bomba e io ti auguro un grosso in bocca al lupo per tutto!».
«Grazie mille. E crepi il lupo!».

sabato 24 marzo 2018

TOMB RAIDER

di Matteo Marescalco

*recensione pubblicata per Point Blank: http://www.pointblank.it/recensione/tomb-raider/ 

Angelina Jolie vs. Alicia Vikander.
La contrapposizione tra le due attrici equivale a quella tra la donna procace che ha indossato la canotta di Lara Croft nel 2001 e lo scricciolo che ha riportato sullo schermo l'eroina virtuale in Tomb Raider, rilancio del franchise all'epoca della digitalizzazione di massa. Il confronto è impietoso e si muove a sfavore della signora Fassbender che, fin dalla sua scelta, è stata accusata di avere ben poco di adatto, almeno sul versante fisico, per interpretare un personaggio del genere, tutto muscoli e femminilità (il suo body non è sufficientemente augmented). 

Eppure, la nostra giovane e minuscola attrice si impegna. Il suo approccio al film può essere sintetizzato dalla prima sequenza, in cui Lara Croft affronta il suo avversario su un ring e le prende di santa ragione senza tuttavia perdere l'orgoglio e la fede in ciò che fa. In questo nuovo adattamento, Lara ha rinunciato all'eredità paterna (maniero imponente nella campagna britannica e numerose aziende londinesi) scegliendo di guadagnarsi da vivere con le consegne a domicilio. Scelta che, in un certo senso, ben si accorda con l'epoca contemporanea e con l'immagine di un'eroina che non deve chiedere niente a nessuno (men che meno a un uomo) ma che sa farsi da sola. In tal senso (in virtù di un'ovvia attualizzazione), si può comprendere il motivo di un reboot della saga di Tomb Raider. Tra scorrazzate in bicicletta ed inseguimenti nel porto di Hong Kong, spingendo l'acceleratore sulla natura videoludica della messa in scena, Lara Croft si troverà coinvolta in una missione da cui «derivano grandi responsabilità». 

*continua a leggere su Point Blank: http://www.pointblank.it/recensione/tomb-raider/

giovedì 22 marzo 2018

READY PLAYER ONE

di Matteo Marescalco

A Gennaio parlavamo di Steven Spielberg e del suo The Post, in occasione della presentazione stampa tenutasi a Milano, con un occhio verso Ready Player One, che sarebbe uscito qualche mese dopo. Il tanto atteso momento è arrivato. L'ultimo film del più grande affabulatore per immagini dei giorni nostri approderà al cinema tra una settimana. A 70 anni suonati, età in cui, in genere, anche i più grandi perdono parte della loro lucidità artistica e tendono a ripetersi, Spielberg dimostra una piena maturità stilistica e narrativa ed una giovinezza nel suo sguardo da far invidia alla maggior parte dei suoi colleghi.

Ready Player One nasce dal romanzo omonimo scritto nel 2010 da Ernest Cline, diventato in breve tempo un must per ogni appassionato di cultura virtuale e di immaginario anni '80. A causa del larghissimo numero di riferimenti a quell'epoca, la trasposizione del libro è stata problematica. Il racconto ha inizio nel 2045. Il mondo reale è un luogo impervio ed ostile. Gli Stati Uniti hanno smesso di lottare per ciò che davvero conta ed appaiono come un Paese sull'orlo del baratro, in cui le persone vivono in grigie baraccopoli sviluppate in verticale. Ponteggi, camper e discariche di automobili segnano l'orizzonte visivo. A spopolare in un contesto del genere è OASIS, un intero universo virtuale all'interno del quale l'umanità evade e trascorre gran parte della giornata. Gli unici limiti di OASIS risiedono nella propria immaginazione. L'universo del sistema creato da James Halliday funziona come un videogioco in multiplayer, con una serie di ricompense virtuali spedite a chi vi trascorre più tempo. Inforcando il visore per la VR ed indossando una tutina che rende reali le sensazioni provate in OASIS, ogni giocatore trasferisce la propria identità in un avatar che compie il tradizionale viaggio dell'eroe (siamo dalle parti di Avatar). Alla sua morte, Halliday lascia la sua immensa fortuna e il controllo totale del sistema al vincitore di una competizione in tre round che aveva progettato per trovare un degno erede. Wade vince la prima sfida di questa caccia al tesoro e, insieme ai suoi amici virtuali, viene catapultato in un universo fatto di pericoli e scoperte per salvare OASIS ed il vecchio mondo reale. Ha inizio una meravigliosa corsa per un ragazzo ordinario immerso in un contesto straordinario.

Negli anni, i film di Steven Spielberg hanno costruito un'emozione di massa ed un'empatia planetaria con il pubblico che è riuscita ad andare oltre ogni possibile definizione. Il regista che, più di ogni altro, ha contribuito all'edificazione delle fondamenta della nostra immaginazione condivisa, a 71 anni ha probabilmente diretto uno testi filmici che meglio contribuiranno alla riflessione sul rapporto tra cinema, realtà virtuale ed immaginario collettivo. Intrattenimento partecipato, liquidità del reale, pratiche affettive e quotidiane che affidiamo ai dispositivi mediali, archeologia della visione sono solo alcuni dei concetti trattati da Ready Player One. Conditi da un numero incredibile di easter-egg e di citazioni, senza che epica e stupore (che sono sempre stati tratti distintivi del cinema spielberghiano) ne risentano minimamente.

Sembrerà ripetitivo ma gran parte dello stupore dettato dal film è generato dal rapido passaggio da un film classico giocato su campi e controcampi come The Post ad un prodotto ipercinetico e totalmente costruito in CGI come questo. Eppure, la chiave di volta (il famigerato easter-egg di cui Wade e i suoi amici vanno alla ricerca) giace proprio nelle pieghe che accomunano i due film citati. Perchè anima vintage, intrattenimento emotivo e sensoriale, gigantesca sintesi del senso di spettacolo del cinema di Steven Spielberg, realtà virtuale e CGI sono caratterizzati da un profondo umanesimo che segna ogni film del regista americano e la “politica” di James Halliday, industriale ma prima di tutto nerd appassionato di ogni sua creazione (ça va sans dire che la proiezione di Spielberg è presente sia in Halliday, creatore appassionato ed orchestratore di emozioni, sia in Wade, pubblico che crede nel potere della propria immaginazione). «È stato bello giocare al mio gioco?».

Che Ready Player One possa essere il testamento spirituale del ramo fantascientifico e bigger than life del cinema di Spielberg? Questo è difficile da dire. L'affresco dipinto è una vastissima tela da riempire a piacimento, una fuga dalla realtà in cui non dimenticare mai l'importanza dei rapporti reali ed il cuore umano ed ingenuo di ogni narrazione condivisa. 

martedì 20 marzo 2018

GRANDE SUCCESSO PER EXTRA DOC FEST! TRIONFANO IO SONO TOMMASO E DIORAMA.

di Matteo Marescalco

Si è svolta ieri la cerimonia di premiazione della prima edizione di Extra Doc Fest, spina dorsale del programma di Cinema al MAXXI, prodotto da Fondazione Cinema per Roma/CityFest, Fondazione MAXXI e Alice nella Città. Lo sperimentale festival di documentari, ideato e curato da Mario Sesti con il coordinamento di Alessandra Fontemaggi, ha mostrato al pubblico sei prodotti editi ed altrettanti inediti, nell'ambito di un mese e mezzo di proiezioni che hanno coinvolto una Giuria di esperti (presieduta da Hou Hanru, direttore artistico del MAXXI, e composta da Susanna Nicchiarelli, Flavia Perina, Christian Raimo, Elena Radonicich e Lidia Rivera) affiancata da una vasta Platea Competente di giovani critici cinematografici e rappresentanti delle Biblioteche di Roma.

Le giurie hanno assegnato il Premio Extra Doc CityFest (che prevede la somma di 10.000 euro all'autore) al miglior documentario inedito ed il Premio Extra Miglior Documentario Italiano (che sarà programmato in alcune sale del circuito Cityplex della Filmauro) al miglior documentario edito. Tutti i documentari premiati, poi, saranno mostrati nell'ambito del circuito bibliotecario di Roma. L'obiettivo di Fondazione Cinema per Roma e di Fondazione MAXXI è stato quello di «aprire per il documentario un cantiere specifico di visibilità, conoscenza e diffusione» per una forza fondamentale del cinema che, mai come oggi, sta intercettando un assai elevato numero di sguardi e di attenzione mediatica (dimostrata, tra l'altro, dalla numerosa presenza ai grandi festival: autori come Carpignano, Di Costanzo, Minervini, Rosi e Quatriglio ne sono la prova). Film di finzione e registrazione della realtà contaminano vicendevolmente i propri linguaggi, dando vita ad interessanti ibridi che schiudono ricche traiettorie di senso.

A raccogliere il consenso della Giuria Ufficiale e a trionfare tra i Documentari Inediti è stato Io sono Tommaso di Amedeo Fago, «ritratto al tempo stesso glaciale e disperatamente empatico di un interno borghese: una madre e un padre hanno a che fare con la storia di tossicodipendenza dolorosa e comica, consapevole e sorprendente di loro figlio Tommaso, (…) rivelando nella luce opaca di un appartamento romano asfissiato dai conflitti famigliari l'universalità di tutti i nostri affetti guasti». Nella forma più scabra e scarnificata, quella dell'home-movie, il regista ha registrato il grumo invisibile di rimpianti e disillusioni, senza drammi e senza speranze, con una schiettezza che ha ricordato il cinema di Michael Haneke.

Il Premio al Miglior Documentario Edito è andato a Diorama di Demetrio Giacomelli, già premiato al Torino Film Festival, con la seguente motivazione: «Diorama è un film per frammenti che riescono ad avvolgere lo spettatore come un vortice, chiamandolo all'interrogativo più vertiginoso: qual è la relazione tra la nostra condizione umana e la nostra appartenenza al mondo animale. Demetrio Giacomelli compie una serie di piccole peregrinazioni urbane al seguito di rospi, uccelli, cani, mostrandoci l'ambivalenza della dimensione creaturale, attraverso uno stile al tempo stesso rigoroso e lisergico».

La Menzione Speciale è andata a Due Cani di Andrea Vallero, giovane allievo del Centro Sperimentale della Sicilia e autore di un esercizio di atletismo e rinascita dello sguardo. Il documentario si misura con il punto di vista di due cani e segue il loro cammino lungo un'assolata e calda Palermo: lo spazio è rovesciato e le voci umane sono indistinguibili da suoni e rumori di un mondo ricco di minacce e avventure.

La Platea Competente di giovani critici e rappresentanti delle Biblioteche di Roma, invece, ha individuato i quattro documentari che saranno proiettati nell'ambito del sistema bibliotecario romano. Tra gli Inediti, sono stati scelti Non può essere sempre estate di Margherita Panizon e Sabrina Iannucci (esperimento pedagogico dalla straordinaria forza espressiva ambientato nella periferia di Napoli che lacera il velo dell'identità dei ragazzi coinvolti ed attesta la potenza del teatro come strumento di apertura del proprio carattere) ed il già citato Due Cani di Andrea Vallero. The War in Between di Riccardo Ferraris e Cinema Grattacielo di Marco Bertozzi sono stati i due vincitori tra gli Editi. Il primo, già selezionato alla Festa del Cinema di Roma, è ambientato in California, dove veterani e lupi protetti dallo sterminio sistematico combattono contro la paura e la depressione: il documentario si sofferma sul legame terapeutico transpecie indugiando su questo rapporto con meraviglia fiabesca. Il secondo, già menzione speciale al Biografilm Festival, è dedicato al grattacielo di Rimini, novello condominio ballardiano, reliquia del miracolo economico ispezionata come fosse un monolite atterrato dallo spazio.

Il Premio del Pubblico è andato ai documentari più visti di questa prima edizione di Extra Doc Fest: Ho rubato la marmellata di Gioia Magrini e Roberto Meddi e Il sogno di Omero di Emiliano Aiello. La Cerimonia di premiazione ha coronato un evento che ha ottenuto un ottimo successo di pubblico e che ha mostrato la necessità di sguardi intimi e personali nel panorama mediale italiano.

domenica 18 marzo 2018

UN SOGNO CHIAMATO FLORIDA

di Matteo Marescalco

Fare un film vuol dire, più di ogni altra cosa, consentire la possibilità e l'apertura di traiettorie di senso che offrano sguardi plurimi a partire dai quali rielaborare la realtà portata in scena. Su questo versante, Un sogno chiamato Florida, diretto da Sean Baker e presentato all'ultima edizione del Festival di Cannes (alla Quinzane des réalisateurs), riesce a raggiungere il massimo del risultato.

Tra motel dai colori confetto e a forma di piccoli castelli da fiaba, si svolgono le quotidiane scorribande della piccola Moonee, accompagnata da Scooty e Jancey. Dove gli adulti vedono rovine e macerie, i tre bambini vedono luoghi magici in cui poter giocare, sotto la sorveglianza di Bobby, paziente custode e tuttofare del plesso condominiale. L'uomo ridipinge il motel, tiene d'occhio i bambini, gestisce i difficili comportamenti dei genitori e l'incursione in zona di un pedofilo. Ci troviamo alla periferia di Orlando, alle porte dell'utopia del Walt Disney World. Al centro di questo universo, trovano spazio tutte le famiglie che vanno in vacanza e scattano foto con il castello di Walt Disney alle spalle; la parte di confine ospita donne e contesti familiari che versano in condizioni di totale degrado.

Un sogno chiamato Florida è l'esempio più lampante di un cinema che ama i personaggi e le storie che racconta. Moonee e i suoi piccoli amici attirano la macchina da presa, che li pedina e registra gli scarti di sguardo tra il punto di vista dei bambini e quello degli adulti. Tutto il film è percorso dall'esplosione di attimi di energia, che sgorga con la forza di un corso d'acqua anche dalle situazioni più statiche. In questo paesaggio iperreale, caratterizzato da colori pastello e da non luoghi ed edifici dai tratti simulacrali, l'unico segno di autenticità è da riscontrare nell'indistruttibile vitalità dei più piccoli, che anche di fronte ad una crisi definitiva, non si sottraggono ad un'ultima corsa, verso il castello fatato per eccellenza.

Come in The Bad Batch, anche in questo film tutti gli emarginati sono relegati all'universo del condominio-motel, una sorta di riserva indiana che si fa luogo centripeto dove tutto e tutti ritornano, spazio che accoglie drammi personali, spesso nascosti e tenuti in silenzio. Come nel caso di Bobby, interpretato da uno straordinario Willem Dafoe, a cui basta un primo piano senza battute per comunicare infinite sensazioni. Questo film di Sean Baker è un saggio da manuale sul potere della meraviglia che abita l'infanzia in ogni aspetto della sua quotidianità, una camminata verso un futuro probabilmente impossibile da costruire ma in cui non smettere mai di credere. In fin dei conti, ciò che dovrebbe fare ogni spettatore nei confronti del cinema. 

sabato 17 marzo 2018

PETER RABBIT

di Matteo Marescalco

Genitori, non vergognatevi di accompagnare al cinema i vostri figli e di ridere insieme a loro durante la visione di questo film targato Sony Pictures!

Ad essere adattato per il grande schermo è uno dei capisaldi della letteratura anglosassone per l'infanzia: Peter Rabbit, nato dalla penna della scrittrice ed illustratrice Beatrix Potter. Rimasto da poco orfano, Peter Rabbit, insieme alle sorelle Flopsy, Mopsy e Cotton-Tail e al cugino Benjamin, vive rubando gli ortaggi dal giardino del burbero signor McGregor, che ha ucciso in passato il loro padre. La morte di McGregor, stroncato da un infarto, restituisce nuova linfa vitale ai conigli, che si illudono di poter mettere piede liberamente nel suo giardino, senza più temere di essere cacciati o uccisi. L'eredità della casa di campagna, però, finisce tra le mani di un lontano nipote, un ragazzo di città che odia gli animali e le atmosfere bucoliche e che fa breccia nel cuore della vicina di casa, pittrice ed animalista convinta. Questo inaspettato amore è sufficiente a generare l'odio dei conigli nei confronti del nuovo proprietario di casa.

A catturare l'attenzione è innanzitutto la riuscitissima tecnica realizzativa del film che ibrida live action e CGI. Animali della campagna inglese ed esseri umani convivono raggiungendo la sensazione di un realismo percettivo totale che azzera ogni differenza tra innesto digitale ed universo analogico. L'interazione tra attori, paesaggio e creature è straordinariamente realistica: corse a perdifiato, cadute e musica martellante funzionano molto bene per entrambi i tipi di attanti. Nella sua esilità di fondo, la storia funziona puntando soprattutto su gag slapstick che puntano alla pancia dei più piccoli e situazioni surreali e battute nonsense rivolte principalmente agli adulti (le atmosfere alla Animal House sono dietro l'angolo). Il maiale dandy che non riesce a distaccarsi dai suoi istinti più primordiali, la volpe esibizionista ed il gallo nichilista sono tra le trovate comiche più interessanti del film e dimostrano la ricca elaborazione del distacco tra lungometraggio e racconti di partenza.

Probabilmente, in questo lavaggio in salsa yankee, si perde buona parte dello spirito inglese e della sua eleganza. Ogni elemento secondario è in grado di raggiungere un proprio spazio, tra intento pedagogico, omaggio alla tradizione e volontà di creare scompiglio. In vista delle prossime festività pasquali, Peter Rabbit potrebbe essere un'eccellente risposta al quesito sul film da vedere al cinema.

martedì 13 marzo 2018

MARIA MADDALENA

di Matteo Marescalco

Tempo fa, in occasione dell'uscita nelle sale di Vizio di forma di Paul Thomas Anderson, dedicammo uno speciale a Joaquin Phoenix, attore spesso ingiustamente sottovalutato ma titano dalle incredibili capacità recitative. In Maria Maddalena di Garth Davis, interpreta Gesù Cristo. Senza dubbio, per il 43enne che soltanto da poco ha raggiunto una certa serenità si trattava di una sfida particolarmente degna di nota.

Il film narra la storia della giovane Maria di Magdala, una comunità di pescatori sita sul lago di Tiberiade. La ragazza rifiuta di sposarsi e di avere figlie come le altre donne, azione che causa la contrarietà della sua famiglia. Questo rifiuto di adeguarsi alle regole sociali viene letto dalla comunità come un segno di possessione demoniaca. Per questo motivo, Maria rimane vittima di un tentativo di esorcismo organizzato dal padre e dai suoi fratelli che, tuttavia, si rivela fallimentare. I familiari provano il tutto per tutto facendola visitare da un guaritore che sta raccogliendo masse di fedeli: Gesù di Nazareth. Sedotta da un suo sermone, Maria decide di seguire Gesù ed i suoi discepoli in un lungo viaggio a piedi verso Gerusalemme, dove verrà data vita all'avvento del Regno e alla cacciata degli oppressori romani.

La produzione del film ha fatto tappa anche in Italia: Joaquin Phoenix, Rooney Mara e l'intera crew hanno girato a Trapani, San Vito lo Capo e a Napoli. Il versante contemplativo dell'immagine domina largamente sulle esigenze di costruzione di un racconto che catturi lo spettatore all'interno del suo meccanismo narrativo. Tutto è edificato e messo in scena con l'obiettivo di dar vita ad un'immagine da ammirare in silenzio, a costo di perdere una certa naturalezza ed invisibilità che dovrebbe caratterizzare le storie classiche. Sembra però che importanza di intervento registico e risultati ottenuti siano due grandezze inversamente proporzionali. Tanto la forza dell'apparato è presente quanto la totalità risulta essere esangue, a partire dalle interpretazioni dei due attori principali. Il Gesù Cristo di Phoenix è soffocato dalla personalità strabordante dell'attore che finisce per divorare il personaggio interpretato. Viceversa, le azioni di Maria Maddalena risultano poco incisive e prive di particolari chiaroscuri, tenute a freno, quasi consapevoli del destino da cui i personaggi sono attesi da lì a poco.

L'approfondimento della stessa figura della Maddalena è superficiale, vittima di scelte registiche e di scrittura che la privano di vitalità, alla pari di un Gesù arrendevole e debole. Più azione e meno contemplazione avrebbe, senza dubbio, giovato al film di Garth Davis.

lunedì 12 marzo 2018

NELLE PIEGHE DEL TEMPO

di Matteo Marescalco

Dopo Black Panther, supereroe Marvel da poco sbarcato nelle sale cinematografiche, la Disney torna nuovamente all'esaltazione del black power con Nelle pieghe del tempo, tratto dall'omonimo romanzo del 1963 scritto da Madeleine L'Engle e rispolverato a causa delle tematiche trattate: il libro parla di integrazione, bullismo, scontri dovuti alla diversità culturale e presta particolare attenzione al ruolo della donna.

Meg Murry è la tipica studentessa delle scuole medie brillante che però non si applica con problemi di autostima e di integrazione. I suoi genitori sono due fisici di fama mondiale. La vita sua e del fratellino Charles Wallace viene sconvolta a causa dell'improvvisa scomparsa del padre, che ha abbandonato moglie e figlia senza alcun preavviso. Sarà proprio Charles Wallace a mettere in contatto Meg ed il suo compagno di classe Calvin con tre creature fantastiche, qui nel ruolo di guide: la Signora Cos'è, la Signora Quale e la Signora Chi. Il gruppo intraprenderà un viaggio attraverso il tempo e lo spazio alla ricerca del padre di Meg. Per poter tornare sulla Terra, la ragazzina sarà costretta ad oltrepassare i confini della sua immaginazione e a guardare a fondo dentro sé stessa per sconfiggere l'oscurità che avvolge lei e i suoi amici.
 
Nulla di più tradizionale per la grande casa americana dell'immaginario. La ricostruzione di una famiglia distrutta viene perseguita attraverso un lungo viaggio che l'eroina ed i suoi amici intraprenderanno tra le spinte di un politically correct che centrifuga ogni elemento del racconto.
Tra le protagoniste, ritroviamo anche Oprah Winfrey, conduttrice del celebre The Oprah Winfrey Show, che, con il discorso ai Golden Globes, si è lanciata verso la Casa Bianca. Nelle pieghe del tempo sembra quasi proseguire la sua campagna elettorale, inneggiando ad un presunto equilibrio interiore da trovare, seguendo la giusta frequenza e combattendo l'oscurità. A parte l'evidente connotazione politica, il film esagera nell'uso degli effetti speciali e in una costruzione narrativa caratterizzata da un ammasso di eventi slegati da qualsivoglia filo logico. Per non parlare dei dialoghi al limite del trash e del nonsense. Insomma, per la Disney è un tonfo totale.

METTI LA NONNA IN FREEZER

di Matteo Marescalco

Metti la nonna in freezer. In epoca pentastellata, l'attesa del tanto ambito reddito di cittadinanza potrebbe spingere ad un'azione così surreale ed orrorifica che, a detta del produttore Nicola Giuliano, è realmente avvenuta in un paese nei pressi di Cuneo. Incredibile ma non troppo, il cinema anticipa sempre la realtà che, a sua volta, riesce a praticare una serie di rilanci a cui è difficile prestar fede.

Simone Recchia è un finanziere incorruttibile e maldestro che dedica tutta la sua vita al lavoro. Non prende ferie da anni, è divorziato ed è responsabile delle più creative retate degli ultimi tempi. Quando meno se lo aspetta, si innamora di Claudia, una giovane restauratrice la cui ditta continua ad esistere grazie alla pensione della nonna. Per evitare la bancarotta, a causa della morte improvvisa dell'anziana signora, Claudia e le sue amiche pianificano una truffa per continuare ad incassare la pensione e fingono che la nonna sia ancora viva. Travestimenti, equivoci ed ingegnose bugie sono soltanto alcuni degli ingredienti che animano questa divertente commedia degli equivoci.

La dichiarazione più interessante in relazione al film è stata fatta dallo sceneggiatore Fabio Bonifacci durante la conferenza di presentazione alla stampa. L'obiettivo dei registi (Giancarlo Fontana e Giuseppe Stasi, qui al loro secondo lungometraggio) non era quello di denunciare un problema ma semplicemente di raccontare una storia basata sulla struttura narrativa della black comedy. L'intento fallisce parzialmente durante la prima parte del film che aderisce in modo esageratamente blando agli stereotipi della più tradizionale commedia italiana recente ma subisce una straordinaria correzione in corsa con lo sviluppo del racconto.

Il montaggio si fa sempre più frenetico e le scene si susseguono attraverso uno strettissimomeccanismo di causa-effetto che detona in corrispondenza dei momenti giusti. Ovviamente, il nucleo della storia ruota attorno alla paradossale decisione di Claudia e delle sue due amiche: congelare la nonna e non dichiarare la sua morte per mantenere la pensione. Attorno ad una questione sociale di fondamentale importanza (la disoccupazione e la difficoltà dei giovani a sbarcare il lunario) è costruito un meccanismo narrativo avvincente ed emozionante che strizza l'occhio alle passioni cinematografiche dei due registi. Le situazioni grottesche sono inanellate a ritmi forsennati che sfruttano la bravura dei due interpreti principali (Fabio De Luigi e Miriam Leone) e di alcuni comprimari di razza (Marina Rocco, Lucia Ocone ed Eros Pagni). La farsa è decisamente ben orchestrata perché non si sofferma sugli aspetti più stantii della commedia sociale ma consente allo spettatore di assaporare il piacere di un racconto ben costruito ed elettrizzante.