di Egidio Matinata
Non si può parlare di Spider Man: Homecoming senza considerarlo come ciò che rappresenta (ossia la singola parte di un tutto) all’interno dell’universo cinematografico della Marvel.
Il periodo in cui le serie tv stavano diventando qualitativamente il nuovo cinema è ormai passato.
Già da tempo il cinema, in alcuni ambiti, si sta approcciando a storie e personaggi con linguaggi e modalità molto vicini all’universo televisivo.
Il periodo in cui le serie tv stavano diventando qualitativamente il nuovo cinema è ormai passato.
Già da tempo il cinema, in alcuni ambiti, si sta approcciando a storie e personaggi con linguaggi e modalità molto vicini all’universo televisivo.
Il Marvel Cinematic Universe ne è l’esempio più colossale, lampante ed evidente.
In Civil War non ci si preoccupa di presentare “nuovi” personaggi o spiegare determinate situazioni, poiché si dà per scontato che lo spettatore abbia visto la puntata precedente, data la forte continuity all’interno del franchise.
Uno dei fattori che più salta all’occhio riguarda l’uniformità stilistica che contraddistingue tutti i film della saga e che, purtroppo, appiattisce il livello registico e di messa in scena di questi film.
Zack Snyder, invece, nonostante tutte le colpe e i difetti che gli si possono imputare (legittimamente, nella maggior parte dei casi), ha provato a portare l’impronta autoriale nel mondo DC. Anche in quel caso però, oltre ai problemi di base, il regista è stato costretto ad infilare a forza, in poco più di due ore e mezza, il materiale che sarebbe bastato e avanzato per una stagione di dieci episodi. Il risultato è stato un disastro quasi totale, e l’avvicinamento di Joss Whedon al DC Extended Universe sembra a dir poco provvidenziale.
La tendenza all’appiattimento è inevitabile in progetti del genere, cosa che da un lato può portare a tempi di produzione più veloci, ma anche all’impoverimento del linguaggio cinematografico.
Tendenza da cui non sfugge neanche questo terzo reboot di Spider Man, sul quale non c’è molto da dire. L’azione non è il punto forte del film: il regista non sembra essere particolarmente a suo agio da questo punto di vista, esclusa la scena nella parte centrale, sull’obelisco, la migliore tra le sequenze adrenaliniche. Il ritmo è quasi sempre elevato, ma risulta meno efficace poiché spalmato su 133 minuti che risultano davvero troppi.
Neanche la sceneggiatura, scritta a dodici mani (!), brilla per originalità o particolare inventiva, anche se il colpo di scena che introduce l’ultimo atto del film è davvero ben costruito ed efficace, capace di saldare alla perfezione le due linee principali della trama: da un lato la voglia del giovane Peter Parker di trovare un posto nel mondo e dall’altro l’aspirazione a far parte dei famigerati Avengers.
Evitando di appesantire la storia con la tematica del rapporto padre/figlio (come sembrava facilmente pronosticabile) e riducendo il minutaggio di Robert Downey Jr., il film riesce a costruirsi una propria identità, riprendendosi dopo una prima parte problematica e regalando una visione a tratti divertente e piacevole. Niente di più.
In Civil War non ci si preoccupa di presentare “nuovi” personaggi o spiegare determinate situazioni, poiché si dà per scontato che lo spettatore abbia visto la puntata precedente, data la forte continuity all’interno del franchise.
Uno dei fattori che più salta all’occhio riguarda l’uniformità stilistica che contraddistingue tutti i film della saga e che, purtroppo, appiattisce il livello registico e di messa in scena di questi film.
Zack Snyder, invece, nonostante tutte le colpe e i difetti che gli si possono imputare (legittimamente, nella maggior parte dei casi), ha provato a portare l’impronta autoriale nel mondo DC. Anche in quel caso però, oltre ai problemi di base, il regista è stato costretto ad infilare a forza, in poco più di due ore e mezza, il materiale che sarebbe bastato e avanzato per una stagione di dieci episodi. Il risultato è stato un disastro quasi totale, e l’avvicinamento di Joss Whedon al DC Extended Universe sembra a dir poco provvidenziale.
La tendenza all’appiattimento è inevitabile in progetti del genere, cosa che da un lato può portare a tempi di produzione più veloci, ma anche all’impoverimento del linguaggio cinematografico.
Tendenza da cui non sfugge neanche questo terzo reboot di Spider Man, sul quale non c’è molto da dire. L’azione non è il punto forte del film: il regista non sembra essere particolarmente a suo agio da questo punto di vista, esclusa la scena nella parte centrale, sull’obelisco, la migliore tra le sequenze adrenaliniche. Il ritmo è quasi sempre elevato, ma risulta meno efficace poiché spalmato su 133 minuti che risultano davvero troppi.
Neanche la sceneggiatura, scritta a dodici mani (!), brilla per originalità o particolare inventiva, anche se il colpo di scena che introduce l’ultimo atto del film è davvero ben costruito ed efficace, capace di saldare alla perfezione le due linee principali della trama: da un lato la voglia del giovane Peter Parker di trovare un posto nel mondo e dall’altro l’aspirazione a far parte dei famigerati Avengers.
Evitando di appesantire la storia con la tematica del rapporto padre/figlio (come sembrava facilmente pronosticabile) e riducendo il minutaggio di Robert Downey Jr., il film riesce a costruirsi una propria identità, riprendendosi dopo una prima parte problematica e regalando una visione a tratti divertente e piacevole. Niente di più.
P.S. Si consiglia di non rimanere fino alla fine dei titoli di coda.
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