di Egidio Matinata
Un film di Ewan McGregor. Con Ewan McGregor, Jennifer Connelly, Dakota Fanning, David Strathairn, Uzo Aduba, Valorie Curry, Rupert Evans. USA 2016. Drammatico. 108 minuti.
Adattare il capolavoro letterario di Philip Roth, vincitore del Premio Pulitzer nel 1998, non era esattamente come "scommettere su un cavallo vincente". Quello degli adattamenti cinematografici è un terreno molto instabile, impervio e pieno di trappole, specie se l’intento è di mettere mano ad uno dei libri americani più acclamati degli ultimi cinquant’anni. Ewan McGregor, inizialmente coinvolto solo come attore principale, ha deciso di prendere in mano le redini del progetto, alzando la posta in gioco per il suo esordio da regista; ma l’esito può dirsi riuscito a metà.
La storia inizia quando Nathan Zuckerman, un affermato scrittore, incontra Jerry Levov, suo amico d’infanzia, ad una cena in onore dei vecchi tempi. Jerry gli rivela che il vero motivo per cui si trova lì è la morte del fratello Seymour, il famigerato “Svedese”. Zuckerman rimane molto sorpreso e amareggiato, ma vuole saperne di più. Così Jerry inizia a raccontargli la storia del fratello, un uomo che dalla vita ha avuto tutto: bellezza, carriera, soldi, una moglie ex Miss New Jersey e una bambina a lungo desiderata, il cui mondo pian piano va in pezzi quando la figlia ormai adolescente compie un attacco terroristico che provoca una vittima.
Non si può effettuare il confronto libro/film, prima di tutto perché in questo caso il risultato
sarebbe impietoso (il libro di Roth è un capolavoro, è storia della letteratura; il film non lo è e non lo sarà mai); si dovrebbe smettere di confrontare per forza i film e i libri da cui sono tratti, perché si tratta di opere diverse, di forme d’arte diverse che hanno determinate caratteristiche e rispondono a logiche non comuni. Andando al sodo, un film del genere, della durata inferiore a due ore si basa su una sceneggiatura di 100/115 pagine (indicativamente, considerando la regola di 1 pagina = 1 minuto di girato), mentre il libro di Roth è di 472 pagine, praticamente quattro volte tanto. Quindi è inutile lamentarsi del fatto che sullo schermo non vedremo (o sentiremo) i pensieri di Zuckerman, le descrizioni della fabbrica dei Levov o dei cambiamenti in atto nell’America degli anni ’60, ma che tutto ciò sarà accennato e/o trattato marginalmente. La verità è che è praticamente impossibile riportare sullo schermo un testo letterario senza tradirlo o tagliarlo. Il cinema si appropria della trama, del plot, e il suo compito primario è raccontare per immagini e magari riuscire a catturare e ricreare l’atmosfera delle pagine di un libro. Quindi, anche in questo caso, è giusto parlare di McGregor e non di Roth. Dal punto di vista della regia, il film non è gestito male, anche se alterna buone intuizioni visive ad alcuni momenti in cui si avverte una certa inesperienza (ad esempio nell’uso delle immagini di repertorio, nella scelta di alcune tracce della colonna sonora, o in alcuni snodi narrativi troppo frettolosi). Peccato che la cosa più sbagliata del film sia aver affidato a McGregor il ruolo del leggendario “Svedese”, un esempio lampante di miscasting: il suo personaggio non ha niente di leggendario, imponente, statuario; è invece sempre in balia degli eventi e dei personaggi che lo circondano (dall’inizio, durante il colloquio tra la fidanzata e il padre Lou, e negli incontri con Rita Cohen e la figlia); non si ha mai la sensazione di assistere alla caduta di un uomo, proprio perché sembra partire già come sconfitto. Molto più riusciti sono invece i personaggi di Jennifer Connelly (Dawn Levov, la moglie) e di Dakota Fanning (Merry Levov, la figlia problematica e balbuziente) e le loro rispettive trasformazioni.
American Pastoral è un buon film e niente più. Ha pregi e difetti di un’opera prima e il peso di essere figlio illegittimo di un genitore troppo ingombrante. Sarà ottimo per le tante persone che a qualche cena si vanteranno di averlo visto, credendo di aver assistito ad un esempio di arte elevata, ma la verità è che si tratta di un film medio che, senza troppe pretese, racconta di un rapporto padre-figlia difficile e contorto, evitando però (o forse non riuscendo) di raccontare le contraddizioni di un Paese e di un periodo storico. Paradossalmente il finale, diverso rispetto a quello del libro, è forse il momento migliore del film, il più coraggioso e anche il più emozionante.
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