Non è una casualità che
il titolo -Directed by Gus Van Sant- appaia, nel suo ultimo film, The Sea of
Trees, in corrispondenza di una lunga strada. Lo spettatore non può non pensare
alle traiettorie rettilinee di Elephant, i cui molteplici punti di vista da
prospettive differenti traspongono l’esperienza videoludica in un inestricabile
dedalo di vie, a partire dalla base delle videocamere di sorveglianza della
Columbine High School. La mente vola verso Gerry e i suoi sentieri dell’anima,
non luoghi in cui (dis)perdere la propria coscienza e rinascere, al termine di
un viaggio in cui l’elemento binario, dopo un lungo movimento senza fine, che
potrebbe, in realtà, equivalere alla stasi totale, trova la sua sintesi estrema
nell’omicidio.
Come in Gerry, anche in The Sea of Trees incontriamo due
personaggi, entrambi aspiranti omicidi di sè stessi. Uno è americano, l’altro
asiatico. I due uomini rappresentano, quindi, due culture completamente
differenti. Nel primo predomina l’indole razionale, nel secondo un approccio
panteista. Il loro incontro avviene nella foresta dei sogni, -luogo perfetto
dove morire-. Ma anche dove comprendere la propria vita e provare ad arginarne
la perdizione, seguendo le briciole di pane della propria esistenza. Il viaggio
non rettilineo dei due protagonisti, in preda a tortuosi percorsi e ad
improvvise cadute, funge come oggettivazione del percorso vitale ed assomiglia
al recente Gravity di Alfonso Cuaron. A differenza che in Gerry, però, in cui
il percorso nello spazio ha la funzione di un’indagine sulla morfologia dell’ambiente
circostante e in cui il versante narrativo sfiora il grado zero, limitandosi ad
osservare il movimento dei due personaggi principali senza spiegare il perché dei
loro atti, in quest’ultimo film tutta la delicatezza di Van Sant viene meno. Il
regista americano, infatti, tende a sovraccaricare dove avrebbe dovuto
alleggerire. A sottovalutare lo spettatore, spiegando l’inspiegabile. A
riempire ogni vuoto, sottraendogli il necessario spazio di riflessione e di
costruzione degli eventi.
La tendenza all’azzeramento
della narrazione e dei dialoghi scompare sotto il peso di una filosofia new age
sempliciotta in cui amor vincit omnia.
Peccato. La mano di Van Sant c’è e si sente persino in questa lineare storia di
rinascita americana. Un altro tema fondamentale all’interno della sua
filmografia, quello della morte, torna con prepotenza. Dopo essere stato
trasformato in un atto casuale e contingente, privo di spiegazioni e di
importanza, e in un’accidentalità in Paranoid Park, in The Sea of Trees è
proprio la morte a consentire la vita. La foresta dei sogni è una sorta di
purgatorio, l’anticamera per la morte vera a propria. In questo tempo sospeso,
privo di coordinate, i due uomini si aggirano a vuoto, come fossero dentro la
Columbine High School. Una serie di flashback delinea la vita di uno di loro.
La morte lo ha colpito da vicino. Ma in modo accidentale. E lui vuole prenderla
per sé. Dall’incontro con alcuni cadaveri e con i fiori in cui si trasformano
una volta che la loro anima ha definitivamente abbandonato il mondo, il
comportamento dei protagonisti muta. L’amore rimane e mette sempre radici
definitive.
Questo smarrimento in un
luogo esistenziale è, di sicuro, meno riuscito dei precedenti film di Gus Van
Sant. Eppure funziona. Escludendo le grossolane falle nella sceneggiatura e la
pressochè totale assenza di lirismo, The Sea of Trees riesce comunque ad emozionare e si riallaccia
al percorso filmografico del suo autore. Sempre in bilico tra produzioni
hollywoodiane e spirito indipendente. Alla ricerca delle tracce che lascia
dietro di sé ogni individualità prima di trasformarsi in polvere e ricordi.
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