di Matteo Marescalco
«Il giorno che cambiò la mia vita non fu un giorno ma una notte. Era la notte di Halloween. Era il 1960, e vivevo a Holden, nel Kentucky. (…)amavo le barrette al cioccolato Zagnut e a mia sorella Ellen piacevano le Baby Ruth. A mio fratello Tuggah piaceva tutto. Non mi piace Halloween, non più. Fu la notte in cui mia madre, mio fratello e mia sorella furono uccisi con un martello. Mio padre uccise tutti tranne me».
Una lenta ed impercettibile carrellata in avanti pone al centro dell'inquadratura il volto di un vecchio in primo piano, con alle spalle una lavagna da scuola. Dopo una serie convulsa di piani dedicati all'evento descritto, un recadrage, coincidente con la fine del racconto, provvede a centrare James Franco, nel ruolo di Jake Epping, professore di Letteratura in una scuola serale.
Epping, scosso dal compito svolto dal vecchio, spiega i motivi per cui è rimasto così colpito, nonostante l'evidente naiveté stilistica: «Harry, è una storia molto potente. Grazie per averla condivisa con noi. Allora, perchè era buona? Perchè quando l'abbiamo sentita, l'abbiamo riconosciuto. Era sincero».
Questa prima macrosequenza della serie tv 22/11/'63, prodotta da J.J. Abrams e tratta dall'omonimo romanzo di Stephen King, presenta in incubazione, come il grande cinema americano classico, il centro focale della vicenda ed alcuni caratteri ricorrenti dei prodotti dei suoi autori. La sequenza di apertura della screwball comedy (e non solo) americana, in genere, racchiude tutti i temi e i passaggi narrativi e figurativi che saranno, poi, sviluppati dal resto del film. E i due caratteri che emergono prepotentemente da questi primi minuti della nuova serie tv di Hulu riguardano il tempo e l'innocenza.
Una lenta ed impercettibile carrellata in avanti pone al centro dell'inquadratura il volto di un vecchio in primo piano, con alle spalle una lavagna da scuola. Dopo una serie convulsa di piani dedicati all'evento descritto, un recadrage, coincidente con la fine del racconto, provvede a centrare James Franco, nel ruolo di Jake Epping, professore di Letteratura in una scuola serale.
Epping, scosso dal compito svolto dal vecchio, spiega i motivi per cui è rimasto così colpito, nonostante l'evidente naiveté stilistica: «Harry, è una storia molto potente. Grazie per averla condivisa con noi. Allora, perchè era buona? Perchè quando l'abbiamo sentita, l'abbiamo riconosciuto. Era sincero».
Questa prima macrosequenza della serie tv 22/11/'63, prodotta da J.J. Abrams e tratta dall'omonimo romanzo di Stephen King, presenta in incubazione, come il grande cinema americano classico, il centro focale della vicenda ed alcuni caratteri ricorrenti dei prodotti dei suoi autori. La sequenza di apertura della screwball comedy (e non solo) americana, in genere, racchiude tutti i temi e i passaggi narrativi e figurativi che saranno, poi, sviluppati dal resto del film. E i due caratteri che emergono prepotentemente da questi primi minuti della nuova serie tv di Hulu riguardano il tempo e l'innocenza.
Il libro di King parte da un McGuffin (nel retro di una tavola calda c'è un varco temporale che porta alle 11:58 del 9 Settembre del 1958) e si pone la domanda:
«Cosa faremmo se ci venisse fornita la possibilità di modificare il passato?». Da qui, ha inizio il viaggio che conduce il maestro della prosa post-alfabetizzata, solo recentemente (nonché ampiamente) rivalutato dalla critica, verso i più profondi meandri dell'universo King: assolati viali del Maine, cantine e fessure da cui escono mostri e multiformi follie, esistenze turbate, pezzi rock e coinvolgenti ballate country. Con un unico caposaldo. Uomini (o più spesso, giovani uomini) in lotta con il lato oscuro del mondo, alle prese con una realtà fenomenica che finisce, troppo spesso, per essere ingurgitata, digerita e sputata dall'oscuro e perturbante supporto reale che ne sta alla base. Personaggi che, infine, gareggiano (in sella alla propria Silver) contro il diabolico Tempo, provando ad intervenire sulla linearità delle sue vicende, sperando nell'appiglio di una qualche Tartaruga che, da arbitro super partes delle vicende universali, può ben poco di fronte all'inconsistenza del Male se non palesarsi come fede infantile e scriteriata.
«E' un meccanismo perfetto e bilanciato di voci ed echi che fanno da rotelle e leve, onirico orologio che rintocca oltre il vetro degli arcani che chiamiamo vita. (…) Un universo di orrore e smarrimento circonda un palcoscenico illuminato, sul quale noi mortali danziamo per sfidare le tenebre».
J.J. Abrams, Steven Spielberg (nume tutelare del primo) e Stephen King sono tra i maggiori storyteller del nostro tempo. Tutti e tre hanno avuto a che fare con storie molto potenti, che abbiamo sentito e abbiamo riconosciuto. E tutti e tre sono alfieri di un racconto popolare che ha, sovente, al proprio centro uomini ordinari in preda ad eventi straordinari. Fin dai tempi di Duel, è stato il reale a farsi magia e a saturare ogni spazio della grigia vita quotidiana. Storie sincere perchè saldamente ancorate all'immaginario collettivo di ognuno di noi, da cui hanno tratto archetipi validi per qualsiasi cultura e in ogni tempo, e che hanno provveduto ad alimentare e plasmare oltremodo. Tocca alla serie-tv di Abrams (papà della nuova isola mediale di Lost) rileggere le pagine di King ed è toccato sempre a lui rifondare (ed aggiornare) l'universo filmico di Spielberg.
La prima sequenza di Super 8 consiste in una delicata carrellata in avanti, come a voler prendere per mano lo spettatore e condurlo all'interno dell'universo finzionale narrato. La macchina da presa si accosta ad un cartellone, all'interno di una fabbrica siderurgica, che ci suggerisce che un incidente è avvenuto il giorno prima. Il successivo nucleo di inquadrature delinea un dramma umano al centro del quale vi è un bambino, che ha perso la propria madre, il padre, alle prese con difficili responsabilità, e i quattro amici con cui il ragazzino avrebbe dovuto girare un film di zombie. Anche nel momento di massimo dramma, Abrams, come King e Spielberg, non disdegna di fare l'occhiolino ai propri personaggi e fruitori, inserendo uno scoppiettante dialogo tra i ragazzi, che lascia presagire le loro imperiture passioni. Un'ultima serie di piani presenta, infine, l'oggetto magico e il “cattivo” della vicenda, come da studi proppiani sulla fiaba russa che, nel 1928, individuavano una serie di funzioni ricorrenti nell'ambito della narrativa popolare.
Iniziano a delinearsi i punti di contatto tra queste tre punte di diamante della cultura letteraria e mediale americana degli ultimi quarant'anni (piccola curiosità: il debutto di King nel mondo della letteratura e di Spielberg in quello del cinema risale, per entrambi, al 1974). Ed è toccato a J.J. Abrams raccogliere il testimone del cinema di Steven Spielberg, quando, poco meno che ventenne, il regista di New York fu incaricato, insieme all'amico Matt Reeves, di restaurare alcuni filmati giovanili realizzati proprio dall'autore di Hook. Per collegarci a quanto detto precedentemente, attraverso un cordone ombelicale che ci consenta di mantenere in vita quanto finora scritto e di avventurarci verso il resto di questo nostro viaggio, che cosa è Hook se non la storia di un uomo che, in preda alla più mortifera linearità della propria routine quotidiana, risveglia quanto di infantile rimane in lui, tornando ad un modus vivendi circolare? La linea retta, tramite un netto intervento sul Tempo, viene curvata e duplicata. «Io so cose che nessun angelo sa. Lo stupore del bambino ha fatto di me un uomo». Cosa sono, quindi, i bambini nei testi filmici e letterari di Spielberg, Abrams e King? Una condizione linguistica, una capacità di sguardo e percezione più attenta e differente. L'infanzia, ovviamente, si estende anche al di là della presenza dei bambini, essa è una condizione che coinvolge pure i personaggi adulti (ridestando il Peter Pan che esiste ancora sotto il velo di Maya che copre Peter Banning).
Dicevamo. Super 8 è diretto da Abrams nel 2011. Narra le vicende di un gruppo di ragazzi che si trovano ad affrontare un alieno. Sarà proprio la sua venuta a spezzare l'andamento temporale tradizionale della vita di periferia americana e ad incrinare le loro certezze, tra le prime turbe adolescenziali e la passione per il cinema. Si tratta di un modo artigianale di fare cinema hollywoodiano, quasi un modello da Art Nouveau (non sarebbe meglio usare il termine Jugendstil?), replicato al suo interno dal film sugli zombie realizzato dagli aspiranti film-makers, i cui effetti speciali sono (volutamente) da serie B ma che restituiscono tutta la passione del creare sogni ai tempi della nuova innocenza dell'audiovisivo americano. Fine degli anni '70, gli USA uscivano devastati dalla Guerra del Vietnam. L'home-video, dal 1972, trasportava e rendeva fruibile il cinema a casa, allevando un'intera generazione alla visione secondo tempi nettamente dilatati. E la durata del film e della visione cominciavano a non coincidere più, con la seconda che interveniva dilatando e rendendo molto più consumabile in base ad esigenze personali il primo. Nel 2011, riuscire a replicare un mood che sembra essere stato sommerso dall'epoca della riproduzione digitale delle immagini, della massificazione del cinema e della facile raggiungibilità di tutti i mezzi necessari per girare un prodotto filmico, vuol dire davvero assumere lo stesso atteggiamento pre-linguistico (pre-visivo) dell'innocenza del cinema.
«Gli Yankee hanno colonizzato il nostro subcosciente», disse nel 1975 Wim Wenders, in anticipo di due anni sul primo episodio del fenomeno mondiale creato da George Lucas che è toccato ad Abrams aggiornare di recente, riuscendo a far convivere una tipologia di racconto costruita sulla base degli episodi originari ma svecchiata dagli effetti delle nuove tecnologie digitali. Celluloid heroes never really die. E il nuovo cinema degli effetti digitali non riesce (perché non vuole) ad affrancarsi dal passato. Anzi, individua in esso la linfa vitale per andare avanti. Come per dire che nelle forze del passato è custodito il futuro. Citando Pietro Masciullo di Sentieri Selvaggi: «Il Risveglio della Forza è un film da attendere spasmodicamente proprio perché già-visto, in un ricalco programmatico del modello che non deve mai produrre scarti. (…) deve far percepire tutto lo sforzo conservatore di una riproduzione perfetta che tenga conto solo di ciò che il cinema è stato. Siamo a casa». Abrams, insomma, si rifugia nell'universo del fandom degli anni '70, epoca, tra l'altro, della sua infanzia, della sua formazione cinematografica, dei primi amori in sala.
E il passato si ritrova a generare imponenti ripercussioni sul futuro.
Ma cosa succederebbe se, in un meccanismo alla rovescia, fosse il futuro ad intervenire sul passato? Ed, in modo particolare, in che modo sarebbe cambiata la storia degli Usa se J.F. Kennedy non fosse stato ucciso, nel lontano 22 Novembre 1963? L'ardua sentenza va ad un professore di Letteratura, ancora in grado di emozionarsi con una storia sincera, di penetrare lo schermo nero di una cantina-cinema e di rendersi protagonista di un racconto alternativo, con l'obiettivo di ri-mediare (al)la Storia. Anche solo per farsi portare via, per allontanare il tempo e ballare.
Ma cosa succederebbe se, in un meccanismo alla rovescia, fosse il futuro ad intervenire sul passato? Ed, in modo particolare, in che modo sarebbe cambiata la storia degli Usa se J.F. Kennedy non fosse stato ucciso, nel lontano 22 Novembre 1963? L'ardua sentenza va ad un professore di Letteratura, ancora in grado di emozionarsi con una storia sincera, di penetrare lo schermo nero di una cantina-cinema e di rendersi protagonista di un racconto alternativo, con l'obiettivo di ri-mediare (al)la Storia. Anche solo per farsi portare via, per allontanare il tempo e ballare.
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