di Matteo Marescalco
Che
ogni nuovo film di Quentin Tarantino sia un evento si sapeva già da
tempo. Il regista di Knoxville è uno dei pochi al
mondo a riuscire a fidelizzare, in maniera incondizionata, il
proprio pubblico ad ogni suo nuovo film, indipendentemente da trama e
cast. A Tarantino non serve necessariamente Brad Pitt o Leonardo Di
Caprio per portare al cinema un ampio pubblico. Potrebbe anche
utilizzare un gruppo di attori sconosciuto e raggiungere comunque
notevoli risultati al botteghino. Attorno a The Hateful Eight,
tuttavia, sono cresciute aspettative ancora più elevate a causa di
una serie di motivi che analizzeremo presto.
Nel documentario
Side by side diretto da Christopher Kenneally, l'attore Keanu Reeves
intervista alcuni registi hollywoodiani tra cui Christopher Nolan,
Martin Scorsese, Danny Boyle, David Lynch, Robert Rodriguez, Steven
Soderbergh e David Fincher. Centro della discussione è il passaggio
dall'analogico al digitale e la finalità del documentario risiede
nel rendere più chiaro al grande pubblico differenze e continuità
insite in questo passaggio epocale. Si parla di esperienza
cinematografica, di democratizzazione del mezzo, di tecnologie
digitali che, ormai, caratterizzano ogni step di produzione di un
film. In questa fase di incertezza, sembra esserci un punto fermo: la
pellicola appartiene al passato (la Kodak ha cessato la produzione
nel 2012) e ad un modo sentimentale di fare e concepire il
Cinema. Nel corso degli anni, il cinema ha sempre più abbandonato il
grande schermo per recarsi nelle case dei singoli individui, a cui è
data la possibilità di vedere film sui più disparati device, dalle
TV agli smartphone, fino ancora ai tablet. Nel 2014, il servizio di
Video on Demand Netflix ha raggiunto in tutto il mondo i 50 milioni
di abbonati e promette di crescere a ritmi esponenziali.
Ma
quanto un film, che perde il proprio supporto classico (la pellicola)
e la possibilità di essere fruito su grande schermo da spettatori in
religioso silenzio, può ancora essere definito tale? Alcuni studiosi
sostengono come l'esperienza dello spettatore sia stata trasformata
da TV e web, ponendo la questione in termini di scomparsa del film
come oggetto estetico ben definito. Altri, invece, tendono a negare
che il mutamento ontologico interferisca con la potenza dell'immagine
perchè il cinema ha una tale forza di penetrazione sociale da
riuscire ad esistere anche senza corpo.
In
un contesto denso di incertezze e di rapidi cambiamenti come questo,
Quentin Tarantino non ha mai mancato di far sapere la sua opinione:
«Per quanto mi riguarda, la proiezione digitale è la morte del
cinema per come lo conosco io. Guardare film stampati su pellicola
vuol dire guardare un'illusione. E per me, quest'illusione è
connessa ad un'accezione magica del film».
Tarantino sottolinea,
quindi, l'aspetto più romantico e sentimentale della questione e
meno quello legato alla praticità e ai costi della realizzazione e
della proiezione digitale. Sta di fatto che il regista americano ha
deciso di girare e proiettare il suo The Hateful Eight in 70mm,
pellicola che rispetto al 35mm, consente di impressionare un
fotogramma più grande, con una definizione ben sei volte superiore
rispetto al formato tradizionale. Si tratta, insomma, della stessa
pellicola utilizzata per Ben Hur e Lawrence d'Arabia.
In
The Hateful Eight, in un periodo in cui digitale e schermi casalinghi imperversano, Quentin Tarantino esagera e non solo
gira e proietta su pellicola ma addirittura in 70mm, con l'obiettivo
di creare l'evento cinematografico per eccellenza e di far provare
agli spettatori contemporanei le stesse esperienze, la stessa
esperienza trascendente per i sensi,
provate da chi, nei lontani anni '50 si recava in sala per vedere i
sopracitati film.
L'ottava
sinfonia visiva di Tarantino è un evento all'ennesima potenza.
L'utilizzo
del 70mm lascia presagire la presenza di abbondanti campi lunghi e/o
comunque di numerose inquadrature panoramiche dedicate ad ambienti
esterni. Ebbene, il più ciarliero (e spregiudicato) tra i registi
contemporanei, dopo aver creato un universo alternativo fatto di
violenza ultrapop, di esplosioni cromatiche e di schizzi di
emoglobina, dopo aver ucciso Hitler in un cinema ed aver revisionato
non solo la seconda guerra mondiale ma pure lo schiavismo americano
della seconda metà dell'800, fa deflagrare i moduli del western
classico anche in questo suo ultimo film.
Abbiamo
avuto l'occasione di vedere il film a Cinecittà, nel formato
originale pensato dal regista.
La
prima inquadratura, dopo l'overture di Ennio Morricone, è un
manifesto programmatico. La macchina da presa si allontana
lentamente, con una carrellata all'indietro, da un crocefisso
innevato. Nel frattempo, sullo sfondo, una carrozza avanza
lentamente. Lo sguardo dello spettatore è portato ad osservare
minuziosamente tutti i movimenti e le dinamiche che regolano gli
spostamenti di attori e macchina da presa e a cogliere di continuo
tutta la ricchezza decorativa dell'ambiente scenico. Questa prima
inquadratura presenta due dei principali protagonisti del film: la
carrozza che mette in moto la vicenda e si fa foriera del principale
sviluppo narrativo del lungometraggio e la neve, agente esterno
carico di cattiveria e di violenza. Il fenomeno naturale, unito
all'onnipresente vento, sembra rispecchiare ed acuire la cattiveria
degli odiosi otto protagonisti.
A
differenza degli ultimi film di Tarantino, in cui le sole scene madri
erano relegate ad ambienti interni, The Hateful Eight segna un
ritorno ai primordi de Le iene, a cui quest'ottava fatica, in
effetti, assomiglia di più. Qui è tutto affidato al potere delle
parole, alla capacità dei personaggi di gestire dialoghi al limite
del surreale che, in corrispondenza dei momenti più caldi (quelli in
cui, appunto, la neve rischia di sciogliersi), lasciano il posto a
pericolosi gesti. E così, l'emporio di Minnie, luogo di
rifugio per otto viaggiatori bloccati dal grande mostro del
film, diviene un meccanismo
detonatore di conflitti storici mai sopiti e che trovano la loro
piena realizzazione tra quattro pareti. La storia degli Stati Uniti e
del cinema di Tarantino viene messa in scena (e riletta) in un luogo
dimenticato da Dio, in cui perfino il sacrificio del Figlio sarebbe
superfluo, appesantito da uno scenario che finirebbe per sopraffarlo.
Il
circense del cinema gioca con i generi e con il montaggio, fa
kammerspiel e commedia nera, bacchetta tutto e tutti, rilancia e
devasta le icone dei suoi precedenti film e fa in modo che
l'artificializzazione del reale raggiunga il suo culmine. L'emporio è
sintesi di organizzazione totale, tutto è pensato per stare nel
posto in cui si trova. Ma alcuni dettagli rischiano di far detonare
la baracca prima del dovuto. Tarantino uccide il genere e le sue
icone macellando tutto in una casa degli orrori ai confini del mondo.
In questa summa del suo cinema, che tanto si distacca dal
fumettistico e conciliatorio Django Unchained, divertissement personale, Tarantino conferma le
sue capacità di sintesi e di fusione di elementi in netto contrasto
tra loro. Il pulp e lo splatter si uniscono al manierismo, dando vita
alla nazione americana, il cui destino, a giudicare dalla sua
nascita, sembra essere destinato ad un bagno di sangue.
Nonostante
la durata spropositata e i dialoghi infiniti, il film scorre che è
una meraviglia ed instilla nello spettatore la rarissima sensazione
di aver partecipato a questo scontro tra Nord e Sud, di aver
aggredito la Storia, di aver morso la carne della pellicola. Di aver
vissuto, veramente, il film.