di Matteo Marescalco
In anticipo sui tempi e con alcune lacune sul cartellone cinematografico dell'anno (tra gli ultimi, non abbiamo ancora visto Everything will be fine di Wim Wenders, Il ponte delle spie di Steven Spielberg e In the heart of the sea di Ron Howard), arriva la nostra Top 10+1 dei film del 2015 che più abbiamo amato. Quest'anno, per la prima volta, si è deciso di evitare una rigida classificazione dei film e di escludere, almeno per il momento, la Flop 10 dell'anno.
A voi la lista!
P.S. Per la recensione completa, cliccate sul titolo del film.
Quanto è bella l'infanzia dei personaggi di quest'ultimo film di Michel Gondry. Dura, difficile da affrontare, infelice. Ma mai priva di immaginazione, come un ingranaggio meccanico che fatica ad andare avanti ma a cui non manca mai un millilitro di olio. Amicizia ed immaginazione: nodi di questo lineare e semplice lungometraggio del regista francese che, dopo qualche errore (Mood Indigo su tutti), ritorna in forma con un racconto di formazione in stile Truffaut. Si viaggia per la Francia, attraversando anche i problemi delle relazioni adolescenziali. Si viaggia nel cinema, affondando nelle acque amniotiche dell'artigianalità dei primordi. Meraviglioso, leggero, grazioso questo dolce sogno dilatato all'infinito. Lunga vita ai bambini di Gondry che, nell'epoca della sottomotricità smartphonica, si sporcano le mani e seppelliscono i cellulari sotto la loro merda. Per crescere e guardare nuovamente alle cose, senza mai abbandonare i voli pindarici della propria mente.
Cantore di famiglie disfunzionali e di intellettualodi in piena crisi esistenziale, di uomini e donne affetti dalla sindrome di Peter Pan che non accettano l'avanzare dell'età, attento entomologo dei rapporti tra componenti della classe borghese newyorkese che demistifica e prende in giro, Baumbach è tornato al cinema, quest'anno, con ben due film, uno dei quali entra in gamba tesa nella nostra classifica. Questa indagine sue due generazioni (40enni e 20enni) riflette due tipologie di fare cinema documentaristico: assoluta onestà intellettuale e rivisitazione postmoderna di materiale esistente che, a tratti, può anche essere inquinato. Guardare un film di Baumbach è come tornare al paese natale, dove si incontrano nuovamente gli zii e i cugini ammirati e odiati, alcuni amici che prenderemmo volentieri a mazzate, ma a cui vogliamo, nonostante tutto, un bene profondo.
In un turbinio di emozioni reali, finzione cinematografica, finzione nella finzione e cortocircuiti di natura onirica, ci troviamo a vivere il dramma di Margherita e Giovanni, quello di un fratello e di una sorella che fanno i conti con l'imminente morte della madre. Il rimando alla vicenda autobiografica è morte ma è mediato dall'assunzione di una differente consapevolezza da parte del regista che mostra, mettendosi a nudo ma mai senza pudore, un profondo disagio e senso di inadeguatezza. Mia madre è costruito su una stratificazione di livelli, è un continuo gioco di specchi in cui i protagonisti entrano in contatto con i loro fantasmi e le paure più profonde. La conclusione spera in un ritorno alla realtà, che sembra ormai impossibile da cogliere ma che Moretti, invece, invoca, giungendo con toni minimali ad attingere all'ossatura del dolore stesso cui si alterna il ricordo di un tempo e di uno spazio che si vorrebbero sempre tenere con sé ma che si devono, inevitabilmente, superare.
Siamo pronti, insieme a Nanni, ad intraprendere un nuovo viaggio in Vespa. Inforchiamo gli occhiali ed indossiamo il casco. Fino alla prossima meta da raggiungere.
IT FOLLOWS di David Robert Mitchell/THE VISIT di M. Night Shyamalan
Il 2015, oltre ad essere stato l'anno dei blockbuster (e anche per il 2016 è stata confermata questa tendenza), è anche stato l'anno di ottimi film horror. Ad emergere, in modo particolare, sono stati tre prodotti: The Babadook di Jennifer Kent, It Follows di David Robert Mitchell e The Visit, che ha segnato il ritorno del nostro amato M. Night Shyamalan. Sull'ultimo film, lo ammettiamo, siamo di parte ma è innegabile che il regista indiano (qui patrocinato da Jason Blum) abbia saputo costruire un ottimo dramma familiare che prende come pretesto, ancora una volta, il genere horror. In questa sua indagine sulla paura, portata avanti già nei suoi precedenti film, giunge ad attingere al pozzo nero e deformante del terrore puro. Il found footage diventa, nelle sue mani, un ulteriore strumento attraverso il quale architettare il congegno della tensione. In It Follows, l'orrore è ambientato negli anni '70/'80 e si trasmette sessualmente. Lo spettro dell'Aids è dietro l'angolo. Il film rivisita gli stilemi dell'horror tradizionali, aggiornandoli all'epoca contemporanea, con un gusto per il vintage che caratterizza ulteriormente l'atmosfera.
Il 2015, oltre ad essere stato l'anno dei blockbuster (e anche per il 2016 è stata confermata questa tendenza), è anche stato l'anno di ottimi film horror. Ad emergere, in modo particolare, sono stati tre prodotti: The Babadook di Jennifer Kent, It Follows di David Robert Mitchell e The Visit, che ha segnato il ritorno del nostro amato M. Night Shyamalan. Sull'ultimo film, lo ammettiamo, siamo di parte ma è innegabile che il regista indiano (qui patrocinato da Jason Blum) abbia saputo costruire un ottimo dramma familiare che prende come pretesto, ancora una volta, il genere horror. In questa sua indagine sulla paura, portata avanti già nei suoi precedenti film, giunge ad attingere al pozzo nero e deformante del terrore puro. Il found footage diventa, nelle sue mani, un ulteriore strumento attraverso il quale architettare il congegno della tensione. In It Follows, l'orrore è ambientato negli anni '70/'80 e si trasmette sessualmente. Lo spettro dell'Aids è dietro l'angolo. Il film rivisita gli stilemi dell'horror tradizionali, aggiornandoli all'epoca contemporanea, con un gusto per il vintage che caratterizza ulteriormente l'atmosfera.
Ancora una volta, il miglior film d'animazione della stagione è stato partorito dalla mente geniale della Pixar. Inside Out è un viaggio che scava nelle profondità dell'essere umano, negli unici luoghi in cui è possibile trovare risposte e che traspone su schermo lo stesso metodo di lavoro della casa di produzione americana: trattare le emozioni e le idee con assoluto rigore. Insomma, metodi industriali e da catena di montaggio applicati all'immaginario ed alla struttura mentale. Impossibile non pensare allo stesso statuto cinematografico, sintesi di tecnica ed immaginario per eccellenza. Senza questo meraviglioso gruppo di artisti e tecnici, la nostra immaginazione ne avrebbe pesantemente risentito e, insieme ad essa, anche la straordinaria macchina creatrice di sogni che è il Cinema.
INHERENT VICE di Paul Thomas Anderson
Doc Sportello è un detective privato che si trova coinvolto in una serie di investigazioni surreali che lo porteranno a contatto con il più profondo Zeitgeist americano degli anni '60/'70. PTA destruttura e smantella l'impianto tradizionale del noir americano. La messa in scena applicata dal regista al testo filmico che restituisce l'atmosfera caotica ed allucinogena del periodo. In questo magma di visioni segmentate, ad emergere con chiarezza è il ritratto di un Paese allo sbando, il cui Sogno si è annichilito definitivamente. Sportello appare come una sorta di ultimo dei romantici in un perenne stato di alterazione della coscienza, caratterizzato da un forte senso di nostalgia per la fine di un'epoca e l'inizio del periodo di paranoia di massa. Tuttavia, un vizio di forma da non sottovalutare attanaglia l'intero film. Nel tentativo di innestare il carattere prismatico, surreale e stratificato dell'epoca nel tessuto narrativo e visuale del film, PTA finisce per costruire una diegesi eccessivamente stratificata, che confonde senza lasciar intravedere il centro della propria struttura. Il regista sembra aver perso la bussola o essere rimasto vittima dei fumi allucinogeni dell'epoca. Nella sua indagine sulla deriva di una nazione, Anderson rimane invischiato in un intreccio narrativo bigger than life in cui il parallelismo forma-narrazione-contenuto getta un velo di incomprensibilità sul secondo elemento. Dietro il velo di Maya del noir a tinte grottesche, si cela una triste ed amara riflessione su una nazione sull'orlo del fallimento morale. Pur con qualche difetto, ha fatto profondamente breccia nei nostri cuori.
THE CHILDHOOD OF A LEADER di Brady Corbet
Doc Sportello è un detective privato che si trova coinvolto in una serie di investigazioni surreali che lo porteranno a contatto con il più profondo Zeitgeist americano degli anni '60/'70. PTA destruttura e smantella l'impianto tradizionale del noir americano. La messa in scena applicata dal regista al testo filmico che restituisce l'atmosfera caotica ed allucinogena del periodo. In questo magma di visioni segmentate, ad emergere con chiarezza è il ritratto di un Paese allo sbando, il cui Sogno si è annichilito definitivamente. Sportello appare come una sorta di ultimo dei romantici in un perenne stato di alterazione della coscienza, caratterizzato da un forte senso di nostalgia per la fine di un'epoca e l'inizio del periodo di paranoia di massa. Tuttavia, un vizio di forma da non sottovalutare attanaglia l'intero film. Nel tentativo di innestare il carattere prismatico, surreale e stratificato dell'epoca nel tessuto narrativo e visuale del film, PTA finisce per costruire una diegesi eccessivamente stratificata, che confonde senza lasciar intravedere il centro della propria struttura. Il regista sembra aver perso la bussola o essere rimasto vittima dei fumi allucinogeni dell'epoca. Nella sua indagine sulla deriva di una nazione, Anderson rimane invischiato in un intreccio narrativo bigger than life in cui il parallelismo forma-narrazione-contenuto getta un velo di incomprensibilità sul secondo elemento. Dietro il velo di Maya del noir a tinte grottesche, si cela una triste ed amara riflessione su una nazione sull'orlo del fallimento morale. Pur con qualche difetto, ha fatto profondamente breccia nei nostri cuori.
THE CHILDHOOD OF A LEADER di Brady Corbet
Debutto alla regia per uno dei due virginali figli di papà che, nel remake americano shot-for-shot di Funny Games di Michael Haneke, si divertivano a seviziare famiglie borghesi in vacanza. E l'influenza del regista tedesco si sente tutta, a partire dall'inevitabile paragone che The childhood of a leader incoraggia nei confronti de Il nastro bianco. Il film di Haneke indagava con sguardo entomologico un villaggio nella Germania pre-nazista, andando ad individuare i germi della futura generazione dittatoriale. Brady Corbet, qui, si concentra su una famiglia aristocratica che vive nei pressi di Versailles. Il film, in tre atti scanditi dagli attacchi di rabbia del giovane figlio della coppia, analizza in termini freudiani il rapporto tra i tre membri familiari e i primi sintomi di ribellione nei confronti dell'ancien regime. Algido, teso e raggelante, The childhood of a leader convince fino al disturbante epilogo. Film rivelazione dell'ultima Mostra del Cinema di Venezia.
TOMORROWLAND di Brad Bird
Pur con una serie di evidenti difetti, non abbiamo potuto fare a meno di inserire in classifica anche questo prodotto Disney diretto dal Brad Bird della cucciolata Pixar. Nulla più della famosissima frase pronunciata da Buzz Lightyear -Verso l'infinito e oltre!- nel 1995 sembra essere adatto a descrivere e a trasmettere il ventaglio di sentimenti generato da Tomorrowland. La fusione uomo-tecnologia e la nascita di nuovi orizzonti percettivi ed esperienziali sembrano inevitabili. Tomorrowland è un mondo digitale che non ha rinunciato a residui terrestri-analogici.
Profondamente debitore nei confronti del cinema di Steven Spielberg, Brad Bird si schiera dalla parte degli ottimisti ed invita i più piccoli (e non solo) a non smettere mai di credere. Nella loro immaginazione e, soprattutto, in quella del cinema tout court.
THE END OF THE TOUR di James Ponsoldt
TOMORROWLAND di Brad Bird
Pur con una serie di evidenti difetti, non abbiamo potuto fare a meno di inserire in classifica anche questo prodotto Disney diretto dal Brad Bird della cucciolata Pixar. Nulla più della famosissima frase pronunciata da Buzz Lightyear -Verso l'infinito e oltre!- nel 1995 sembra essere adatto a descrivere e a trasmettere il ventaglio di sentimenti generato da Tomorrowland. La fusione uomo-tecnologia e la nascita di nuovi orizzonti percettivi ed esperienziali sembrano inevitabili. Tomorrowland è un mondo digitale che non ha rinunciato a residui terrestri-analogici.
Profondamente debitore nei confronti del cinema di Steven Spielberg, Brad Bird si schiera dalla parte degli ottimisti ed invita i più piccoli (e non solo) a non smettere mai di credere. Nella loro immaginazione e, soprattutto, in quella del cinema tout court.
THE END OF THE TOUR di James Ponsoldt
Tratto da Come diventare se stessi: un viaggio con David Foster Wallace di David Lipski, cronaca degli ultimi giorni del tour di presentazione negli Stati Uniti di Infinite Jest. 1996, lo scrittore David Foster Wallace concede a David Lipski di Rolling Stone un'intervista di cinque giorni. Lipski non si occupa solo di giornalismo ma anche di narrativa e nutre una serie di pregiudizi ideologici sull'autore americano. La convivenza tra i due trasporta lo spettatore nel mondo privato di Wallace, quanto più distante possibile dall'idea di scrittore maledetto in preda ad una vita dissoluta. Anche se una serie di incertezze Wallace le portava con sé: al punto tale da suicidarsi nel 2008. The end of the tour è un viaggio in luoghi intimi che stentiamo ad abbandonare dopo le due ore del lungometraggio, una scoperta del lato più fragile di sé, un dialogo, fatto di botte e risposte, sulla vita e sulla cultura americana, sulle dipendenze e le manie di Wallace, sulle sue debolezze ed idiosincrasie. Non perdetevi questo tenero omaggio che appartiene alla migliore scuola indipendente americana.
EL CLUB di Pablo Larrain
El Club si apre con dei versi biblici su Luce ed Oscurità, che, nel film di Pablo Larrain, convivono. Tutto il lungometraggio è avvolto da un alone bluastro che segna le vite di chi lo popolano. Una casa-famiglia in riva al mare ospita un gruppo di ex sacerdoti penitenti, accusati di abusi sessuali sui minori. In questo contesto misterioso, Pablo Larrain evita la ricostruzione tipica della detection story per insistere continuamente sui primi piani degli attori a cui, tramite dialoghi e monologhi, è assegnato il compito di gettare una luce sulla vicenda.
Pur con le dovute differenze, El Club ci ha ricordato Valhalla Rising di Nicolas Winding Refn. L'atmosfera, dominata da una tenebra ferina ai confini del mondo, relega i personaggi nel regno del buio. Nell'universo di Larrain non sembra esserci spazio per la salvezza.
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