Ebbene.
Tra
assessori e soubrettine, ex sindaci e pseudo autori, anche noi di
Diario di un cinefilo siamo riusciti a prendere parte alla tanto
agognata seconda premiere mondiale di Spectre, 24esimo episodio della
saga dedicata al personaggio creato da Ian Fleming. Ma non
preoccupatevi, non avevamo mica l'invito ufficiale! Diciamo che siamo
riusciti a sfruttare una falla del sistema di sicurezza e a
procurarci un coupon per entrare. Un po' come rubare ai ricchi per
dare ai poveri, no?
La
proiezione si è svolta in un saturo Auditorium della Conciliazione,
durante una serata di pioggia. Clima perfetto per concludere il
nostro viaggio nel mondo di James Bond che, da Marzo, ci ha spinti a
tallonare il cast e la crew del film durante le riprese romane tra
Eur, Nomentana, Lungotevere e Vaticano.
Breve
e necessaria premessa: chi vi parla non è assolutamente fan né
esperto di James Bond.
The
Dead are Alive. Questo è l'esergo che dà la genesi alla prima
macrosequenza del film, ambientata in un Messico folkloristico del
giorno dei morti, in cui maschere dalla fattezza di scheletri sfilano
lungo le vie principali. Tocca ad un dinamico ed adrenalinico piano
sequenza gettare lo spettatore nell'universo cromaticamente saturo
del lungometraggio (fotografato da Hoyte Van Hoytema e girato su
pellicola 35mm Kodak. Il che basterebbe ad essere una sufficiente
dichiarazione d'intenti sullo spirito del film). La macchina da presa
si muove in un ambiente scenografico composito con un movimento
fluido. Segue una donna e un uomo che camminano insieme e si dirigono
in un hotel. Prendono l'ascensore ed entrano in una camera. L'uomo si
toglie la maschera che indossa e lascia spazio al corpo di James
Bond. La riemersione dell'immagine iconica passata e il recupero del
suo corpo avviene tramite lo svelamento di un elemento di mediazione,
la maschera, diaframma che aveva ridotto l'agente 007 ad un'ombra, a
un fantasma. All'essenza dello stesso cinema.
La
donna, inconsapevole di essere un mero (ulteriore) strumento tra le
mani di Bond, attende qualcosa che non arriverà mai. L'agente
segreto non ha tempo da perdere, si reca sul balcone della camera e,
dopo, una serie di sparatorie e di inseguimenti, riesce ad uccidere
Marco Sciarra, pedina che lo condurrà allo Spectre, organizzazione
criminale che chiama in causa una serie di eventi passati.
Stacco.
Sigla. Trashata di dimensioni eclatanti con un polpo ed una serie di
figure femminili che avvinghiano Daniel Craig e il sottofondo di
Writing's on the wall di Sam Smith. E niente, Sam Smith non è Adele
e Writing's on the wall non è Skyfall. Ma poco male.
Il
ritmo è teso e dopo una serie di interessanti dialoghi sullo spettro
della perdita della privacy, di un nemico invisibile contro cui
combattere (senza andare troppo indietro, ricordate Blackhat di Michael Mann?) e della nanotecnologia genetica, Bond arriva a Roma.
Ed eccolo muoversi a velocità sostenuta ma non troppo (eh si, le
buche romane fanno oscillare la mitica Aston Martin con le leve in
vecchio stile) e imbucarsi ad una riunione segreta dello Spectre in
cui, appunto, i morti tornano in vita. Il tempo sufficiente per
essere scoperto ed inseguito dallo scagnozzo di questo episodio,
interpretato da Dave Bautista. Aggressivo, massiccio ma rapido,
Bautista animerà le migliori sequenze di lotta del film.
Meraviglioso l'arrivo in Vaticano sotto le luci soffuse di Via della
Conciliazione e l'inseguimento sul Lungotevere.
E
i primi 40 minuti circa sono stati archiviati, al ritmo teso e veloce
di un treno che, prima di scovare il proprio futuro, deve
necessariamente volgere indietro il proprio sguardo. E sarà proprio
su un treno, una specie di Orient Express che porta nel deserto, che
Bond riuscirà a crescere e ad abbandonare il proprio edipo,
superando il trauma della morte di M. Torna ancora una volta lo
spazio del deserto, dimensione liminale associata al problema
dell'identità e della soggettività.
Peccato
che il ritmo dell'operazione nostalgia si blocchi e precipiti tra le
grinfie di Franz Oberhauser (interpretato da un dimenticabile
Christoph Waltz), lui sì, vero morto che cammina. Incolore e
sottotono, il villain, questa volta, non lascia minimamente il segno.
Colpa di una scrittura che costruisce un personaggio monodimensionale
e che riduce problemi e manie ad un episodio della sua adolescenza.
Sta
di fatto che l'ingresso in scena di Oberhauser coincide con uno
sfilacciamento della narrazione. L'egida di Spectre è insufficiente
per proteggere e condurre a sé i lunghi e giganteschi tentacoli dei
precedenti episodi che rischiano di avvilupparla e stritolarla. Lo
spettatore inesperto ne risente e rischia di perdersi tra le vie di
una Tangeri che avevamo visto più affascinante in altre occasioni
(strizzatina d'occhio a Jarmusch) e all'interno di un palazzo che,
esplodendo, rischia di far deflagrare l'intero tessuto narrativo del
lungometraggio. Eccessive risultano essere le digressioni, più
espedienti virtuosistici per nerd che elementi necessari allo
sviluppo del plot.
Insomma, cosa resta di questo secondo episodio della probabile trilogia diretta da Sam Mendes? Le affascinanti scene d'azione, fluide come i balli sensuali dell'iniziale giorno dei morti, le luci soffuse e giallognole che gettano ulteriore inquietudine sulla destrutturazione di questo eroe giunto, probabilmente, al suo crepuscolo. E la crescita di un personaggio che si trova a diventare adulto, a superare il proprio trauma edipico e a trovare, dentro se stesso, la forza per andare avanti. Che, in fondo, è un po' la stessa cosa che accade al film (e al cinema tout court), fantasma che vive dei propri ricordi.