di Egidio Matinata
Scritta da Nick Pizzolatto. Con Colin Farrell, Vince Vaughn, Rachel McAdams, Taylor Kitsch, Kelly Reilly. 8 episodi. Drammatico, poliziesco. USA 2015.
In True Detective non c’è posto per il bianco e il nero, è il grigio a dominare.
Sono le sue sfumature a permeare anche gli angoli più reconditi del mondo creato da Pizzolatto. In esso si trova la chiave per poter accedervi e capire cosa succede davanti ai nostri occhi.
Capire, non accettare.
Si, perché questa è stata una stagione davvero difficile da digerire, non per mancanza di qualità, ma per il suo presentasi meno accattivante, più ostica, amara e senza scrupoli.
La trama è estremamente complessa, colma di punti interrogativi e povera di risposte, almeno fino alle ultime due puntate dove i nodi vengono al pettine.
Ben Caspere è il fulcro della vicenda, la sua uccisione è l’elemento scatenante che innesca varie reazioni a catena con cui i protagonisti Ray Velcoro, Frank Semyon, Ani Bezzerides e Paul Woodrugh dovranno fare i conti.
Nella prima parte della storia sono le vicende personali di questi personaggi a farla da padrone.
Un punto debole della serie è di non trovare il giusto connubio tra la storia principale e le tragiche vicende dei singoli. Ma è interessante notare come ad una “confusione” della narrazione corrisponda una costruzione perfetta della struttura della vicenda.
Lo spartiacque fondamentale è il massacro di Vinci, evento che chiude la quarta puntata e che segna profondamente entrambi gli archi narrativi di cui si parlava prima. C’è bisogno di quel momento di immobilità totale alla fine della sparatoria per poter ripartire, come se anche la serie in sé, bloccata su se stessa, avesse bisogno di una scossa significativa per continuare.
Purtroppo l’elemento che salta all’occhio con maggiore evidenza è il cambiamento in cabina di regia.
La perfezione della prima stagione era stata raggiunta grazie, anche, alla messa in scena di Cary Fukunaga. In queste otto puntate l’avvicendarsi di registi diversi dietro la macchina da presa e la mancanza di una linea vera e propria da seguire ne hanno sancito un handicap pesante.
La perfezione della prima stagione era stata raggiunta grazie, anche, alla messa in scena di Cary Fukunaga. In queste otto puntate l’avvicendarsi di registi diversi dietro la macchina da presa e la mancanza di una linea vera e propria da seguire ne hanno sancito un handicap pesante.
L’unica vera caratteristica riconoscibile è in quelle inquadrature dall’alto che vengono ripetute quasi ossessivamente e che rendono gli ambienti in cui si svolge la vicenda complici del malessere che permea tutto; città come gabbie, grovigli di strade senza via di fuga.
La sensazione che si ha, però, è di essere di fronte ad un disagio diverso rispetto a quello che trasmetteva la Louisiana di Rust e Marty; in quel caso si aveva a che fare con una malvagità e una paura più autentiche, ancestrali e in un certo senso lovecraftiane.
I nuovi true detective si trovano in un’ambientazione totalmente diversa, una vera e propria giungla d’asfalto inquinata da un marciume molto più terreno e umano, riguardante sia l’anima dei personaggi che i loro loschi affari.
Il punto di contatto con la prima stagione, oltre al marcato pessimismo di fondo, è legato al fatto che le indagini portino man mano a scoprire connessioni sempre più ampie ed estese in cui è difficile trovare un personaggio che muove i fili, ma soltanto un intreccio che coinvolge numerose pedine delle alte sfere e che ha al suo centro la decadenza delle istituzioni in generale. E come spesso accade nei noir, coloro che dovrebbero essere i buoni si scoprono molto meno integerrimi e più problematici (ma per questo più realistici) di come li immaginavamo. Per questo ci troviamo di fronte a diverse sfumature di grigio. A volte più scure e a volte meno, ma sempre ambigue e non rassicuranti.
Di certo lui esce sconfitto (come altre figure paterne) da questo mondo che dovremmo meritare.
La figura del padre non è vista come negativa in sé, ma incapace di togliersi di dosso le cicatrici del passato senza che queste non influenzino coloro che verranno dopo («Time is a flat circle» diceva invece Rust Cohle), senza via d’uscita. E Velcoro, probabilmente in modo consapevole, sa di essere anch’egli un artefice di questa situazione di stallo.
Forse potrebbero essere le donne, le madri, ad effettuare un cambio di rotta, come sembrerebbe auspicare il finale; di certo non la donna malinconica che canta e suona la chitarra nel bar di Ray e Frank.
Anche lei sembra essere rassegnata al fatto che abbiamo il mondo che meritiamo.
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