di Matteo Marescalco
Sono trascorsi ben 37 anni da quel famoso: «Rossi e neri sono tutti uguali? Ma che, siamo in un film di Alberto Sordi?», 26 anni ci separano dal Palombella rossa di: «Ma come parla?! Le parole sono importanti?! Come parla?!» ed, infine, 17 anni dalla famosa tirata: «D'Alema, di' qualcosa, reagisci, di' qualcosa di sinistra!».
Nel 1976, hanno debuttato Nanni Moretti ed il suo eteronimo, Michele Apicella, giovane incazzato e sbruffone del cinema italiano che, nel 1977, durante la trasmissione televisiva Match, ha osato addirittura sfidare, con tono presuntuoso, Mario Monicelli, padre della commedia all'italiana, in un duello “storico” tra vecchia guardia e figli del '68.
Nel corso degli anni, il regista di Brunico si è affermato come uno dei principali autori italiani, costantemente in bilico tra percorso autobiografico (e, di conseguenza, autoreferenziale) ed attenzione alla realtà contemporanea. Creatore delle più esilaranti e ficcanti battute nate dal cinema italiano dell'ultimo quarantennio, entrate ormai a far parte, come citazioni, del linguaggio quotidiano, Moretti ha fidelizzato uno zoccolo duro di pubblico attorno al suo personaggio, quel Michele Apicella critico nei confronti dei luoghi comuni, della mediocrità della generazione post '68, della crisi generazionale del periodo del boom e della volgarità dei mezzi di comunicazione.
Tornare in sala a vedere un nuovo film di Nanni Moretti significa, un po', incontrare nuovamente un vecchio amico che ci era tanto mancato. Uno di quelli che, a prima vista, sembrano un po' altezzosi ed antipatici, pieni di sé, ma con cui non ci si sente mai a disagio. Una persona con cui poter chiacchierare di tutto, di calcio e di politica, di figli e di giri in vespa. Che ammiriamo, odiamo, invidiamo. Ma a cui vogliamo, inevitabilmente, un gran bene.
La stanza del figlio ha rappresentato, nel 2001, una cesura nella filmografia di Moretti che aveva diretto, nel 1998, Aprile, il suo film più dichiaratamente autobiografico e, per questo, idiosincratico, in cui tutte le incertezze e le turbe del Moretti uomo trovavano pieno compimento nel Moretti personaggio fittizio. La stanza del figlio è incentrato sull'elaborazione del lutto da parte di una famiglia che si trova a fare i conti con l'improvviso decesso del giovane figlio. Nel 2011, è toccato ad Habemus Papam proseguire il nuovo itinerario intrapreso da Moretti che continua, sempre più, a defilare la propria immagine, per assumere un ruolo secondario e lasciare spazio ad altri personaggi. Qui, il regista ed attore interpreta, per la seconda volta dopo La stanza del figlio, il ruolo di psicanalista. Sembra che lo stesso ruolo suggerisca una maggiore attitudine all'ascolto piuttosto che alla critica urlata.
In Mia madre, l'atteggiamento del regista è definitivamente cambiato. «Il mio obiettivo era quello di
defilarmi e di evitare una mia prova muscolare per mettere, invece, gli altri al centro dell'attenzione», ha ammesso Moretti durante un'intervista.
Lo stesso inizio di quest'ultimo film sembra portare in scena questo dilemma: partecipare ed urlare o scostarsi ed osservare?
Il Moretti degli ultimi lavori, letteralmente, «sta accanto» ai suoi personaggi, riuscendo ad abbracciare una visione sulla loro vita e sulla società contemporanea mediata dalla maggiore distanza.
In un turbinio di emozioni reali, finzione cinematografica, finzione nella finzione e cortocircuiti di natura onirica, ci troviamo a rivivere il dramma di Margherita e Giovanni, quello di un fratello e di una sorella che fanno i conti con l'imminente morte della madre, docente di latino al liceo. Il rimando alla vicenda autobiografica è molto forte (ed è ulteriormente confermato dall'evidente dichiarazione dell'aggettivo possessivo) ma è, allo stesso tempo, come si diceva prima, mediato dall'assunzione di una differente consapevolezza da parte del regista che mostra, mettendosi a nudo ma mai senza pudore, un profondo disagio e senso di inadeguatezza. Gli stessi sentimenti che provava, nel precedente Habemus Papam, un pontefice che desiderava essere dappertutto eccetto che sul soglio pontificio, non adatto ad un ruolo per cui, come Margherita: «Tutti pensano che io sappia interpretare la realtà, ma io non capisco più niente».
Mia madre è costruito su una stratificazione di livelli, è un continuo gioco di specchi in cui i protagonisti entrano in contatto e si misurano direttamente con i loro fantasmi e le paure più nascoste. Abbondano i momenti ironici, affidati all'istrionismo di John Turturro, metafora di un corpo attoriale vittima del sistema cinematografico statunitense, ma anche quelli malinconici e dolorosi. Su tutti, la sequenza della fila al Capranichetta per vedere Il cielo sopra Berlino, film cardine sulla mancanza di radici e sulla rinascita.
La conclusione, poi, spera in un definitivo ritorno alla realtà, che sembra ormai impossibile da raggiungere e cogliere, ma che Moretti invoca, giungendo, con toni minimali, ad attingere all'ossatura del dolore stesso cui si alterna il ricordo di un tempo e di uno spazio che si vorrebbero sempre tenere con sé ma che si devono, inevitabilmente, superare. Il difficile tema trattato, unito al suo carattere autobiografico, ad un primo aprioristico giudizio, faceva aleggiare il fantasma del narcisismo e dell'autocommiserazione, chiamato in causa per superare il dramma della morte materna. Moretti, invece, guardando agli altri con un diverso punto di vista, guarda a se stesso in maniera differente. Adesso, sembra più maturo e pacificato. Pronto ad intraprendere un nuovo viaggio in vespa.
E noi, con lui, inforchiamo gli occhiali e indossiamo il casco. Fino alla prossima meta da raggiungere.
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