"Sapete cosa mi spaventa di più? Pensare che anche loro, gli
attori e le attrici che amo, i miei eroi, siano fragili. Così
terribilmente "umani". Nonostante le spalle grandi, gli
occhi impenetrabili, una voce imponente e un corpo che da solo,
basterebbe a dominare la scena. Ad evitare il male e gli sguardi che
pungono e affondano come lame. Ma la verità è un'altra. E ci fa
male ammetterla, perché noi a questi eroi di celluloide chiediamo la
perfezione. Chiediamo tutto e il contrario di tutto. E' da loro che
dobbiamo imparare a superare noi stessi, a ricrearci quel momento di
gloria che rimanga fisso, in eterno. A loro chiediamo di essere forti
come la pietra. Chiediamo di raccontarci ogni aspetto della vita. Di
ridere, piangere e di fare tutte le parti che la fantasia, o la cruda
realtà, mettano a disposizione. (...) Non è solo un uomo dalle spalle larghe e ingombranti. E' un
mostro posseduto dall'arte della recitazione. Un servo dell'Arte, un
uomo che non può scegliere di liberarsi o meno. Quando penso ai
grandi attori provo un senso di frustrazione, che non è mia. Sembra
venire da loro stessi. Perché ogni volta che me li immagino al di
fuori di quel ruolo assegnatogli, vedo solamente uomini o donne
tormentati. Perché? Forse perché è davvero questo il prezzo da
pagare...non lo so.
(...) Oggi se ne va un attore immenso,
un uomo tanto grande quanto fragile. Vorrei solamente conservare il
più a lungo possibile quest'immagine che parla di un gigante
complicato e pieno di passione. Un artista che sembra essere nato
già imparato, con quella impeccabile maniera di stare sulla scena e
dar vita ad ogni impulso. Sono poche le volte in cui il dolore si fa reale, scavalcando quel
confine dell'immaginario e del mito. Oltre quel grande schermo
troviamo i nostri eroi e li facciamo tanto veri, da non riuscire ad
accettare il fatto che se ne vadano via. Senza tornare più, se non
nel ricordo o in quel mondo circoscritto e astratto, fatto di
immagini che si rincorrono". (Valentina Orsini per http://criticissimamente.blogspot.it/)
“Perché era il più grande?
Ci ho passato la notte sopra, e ho pensato questo: aveva
a che fare con l’imbarazzo.
Philip Seymour Hoffman portava una specie di pudore tradito, la
vergogna di quel corpo sgraziato, di quel pallore rosato. Era lo
stesso pudore, era la stessa vergogna, che tiene la gente a casa, che
la attacca al pc e la spinge a cercare conforto nelle relazioni
virtuali. Lui, in qualche modo, l’aveva trasformata in bellezza,
perfino in carisma. Ne aveva fatto il suo mestiere. Ma non era una
cosa che costasse poco. Si portava dietro una fatica che traspariva
sempre, e che nel suo privato era diventata ossessione, dipendenza da
alcool e stupefacenti. Non nascondeva nulla. Ogni debolezza era un
altro pezzo di bravura, diventava repertorio". (Giorgio Viaro per Best Movie)
"La goffaggine nel trattare col padre, una virilità tutta
scomposta, il fisico imbolsito di chi è diventato grassoccio dopo
l’università e non dimagrirà mai più, il desiderio di sentirsi
adulti e il non saper da dove cominciare: Philip Seymour Hoffman dava un corpo a tutto
questo; a una comunità di spettatori che vedeva in lui un attore che
riusciva credibilmente a raccontare personalità complesse,
iperemotive, disfunzionali, terribilmente sincere. (...) È come se fosse morto qualcuno che non è mai stato giovane, nel
senso di dilettante, amatoriale, imberbe. Come se Philip Seymour Hoffman non si fosse
data la possibilità di vivere un’era di sfrontatezza, di
improvvisazione, di incertezza. Forse per questo, in modo molto
banale forse, credo di averlo molto amato: mi sembrava rappresentasse
un’incarnazione perfetta del sistema sentimentale della mia – la
vogliamo chiamare così? – generazione: un mondo di
iperconsapevoli, disincantati a vent’anni, ancora fragilissimi a
quaranta". (Christian Raimo per http://www.minimaetmoralia.it/wp/)