Due anni dopo aver diretto l’incompiuto e vacuo “This must be the place”, Paolo Sorrentino torna dietro la macchina da presa con il film “La grande bellezza”, presentato in concorso alla 66esima edizione del Festival Internazionale del Cinema di Cannes. Il film è la quinta pellicola su sei realizzate dal regista ad essere presente al Festival francese.
Protagonista
è Jep
Gambardella, autore di un solo romanzo, “L’apparato umano”,
scritto in giovinezza.
Jep
si muove tra feste cafone e barocche fino al parossismo, attorniato da una
vasta gamma di tipi umani che si configurano come supporto fantasmatico, come
specchio deformante e capovolto dello stesso personaggio interpretato da Toni
Servillo e della città di Roma (rappresentando quasi
l’oggettivazione della sua anima nera), vera protagonista della pellicola.
Dopo
essere arrivato a Roma in giovane età, Jep è lentamente finito nel vortice
della vita mondana capitolina, fino a trasformarsi nel re dei mondani, nel suo
mefistofelico dominatore (a tal proposito, notevole è l’entrata in scena di
Jep, trasformato dall’imponente Servillo in una creatura dallo sguardo
luciferino, presentato tramite una lunga carrellata di personaggi, chiusa
dall’introduzione del personaggio sorridente al ralenti e con una sigaretta stretta
tra i denti. La macchina da presa comincia a svolazzare roteando e in un fluido
movimento all’indietro ribalta la prospettiva e capovolge il quadro,
presentandoci un’inquadratura rovesciata di gente che balla e si diverte,
configurandosi, quindi, come una sorta di corrispettivo fantasmatico della
Capitale diurna). In occasione del suo 65esimo compleanno, il tuttologo Jep si
rende conto di aver vissuto una vita frivola, vana, e di “non poter più
perdere tempo a fare cose che non gli va di fare”.
La
prima macro sequenza de “La grande bellezza” si apre con un coro di donne
che accompagna e puntella l’improvviso infarto di un turista asiatico stroncato
davanti alla magnificenza di una città talmente bella da uccidere.
La
seconda macro sequenza è ambientata all’interno di una discoteca romana dove
Jep e i suoi amici stanno festeggiando il suo compleanno. L’una fa da
contraltare all’altra.
Alla
portentosa bellezza visiva dei primi cinque minuti, in cui Sorrentino sfoggia
tutta la propria onanistica bravura nel muovere la macchina da presa, tra dolly
e carrellate varie al limite di una danza paradisiaca, succede un cambiamento
di ambientazione, con il regista napoletano che mette in scena l’esatta
antitesi della Roma “luminosa”, il suo spettro, concentrandosi sulla dicotomia
luce/oscurità, animus/anima, angelico/diabolico, elementi che convivono come
due oggetti antitetici e contrastanti ma pur sempre complementari nella stessa
persona, nella stessa città.
Anzi,
è lo stesso Jep Gambardella ad innalzarsi metaforicamente al ruolo di
rappresentante della città di Roma, custode della sua anima, ad incarnare i
suoi pregi e difetti, le sue dicotomie contraddittorie, la sua grande bellezza
unita allo squallore degli uomini miserabili che vi abitano, “gli incostanti
e sparuti sprazzi di bellezza che si nascondono”, però, “sotto il
chiacchiericcio inconsistente”, il suo grandioso passato sfociato in un
decadente, volgare e scabroso presente.
L’intero
film è giocato sulla dicotomia dei contrasti in un gioco strabordante ed eccessivo,
a partire da quelli tra la musica house remixata e la colonna sonora solenne,
tra personaggi vuoti, ignavi, inconsapevoli di ciò che sono realmente (fingono
di essere inconsapevoli, in realtà, sono fin troppo coscienti del loro
artifizio), e il monumentale e sacro contesto in cui sono immersi, tra arte del
mondo passato e arte contemporanea, contro cui Sorrentino si scaglia
ferocemente, decadenza e morte della geniale ed ispirata creazione artistica.
“La grande
bellezza” è la metafora dell’attuale società italica, divisa
tra il grottesco contemporaneo e la sublimità del passato, alla costante
ricerca di uno sprazzo di bellezza che può essere ritrovato solo nel tempo che
fu, ormai morto. Altro tema fondamentale del film è proprio quello del tempo, della
decadenza come elemento insito alla condizione umana, e della morte, non a caso
la sceneggiatura è caratterizzata da una struttura circolare che posiziona
all’inizio e alla fine un episodio di morte.
Jep
è rimasto ancorato ad un passato idealizzato, mai vissuto autenticamente nella
sua vita, con il risultato di un lento ed inevitabile incedere peccaminoso
verso la morte; il futuro, in quanto decadenza del passato, ha un unico sfocio.
Sembra non esserci via di scampo per l’individuo umano, costretto alla mera
vanitas ed all’ inconsistenza dell’esistenza.
Paolo
Sorrentino ha girato un film ipertrofico a livello visivo, splendidamente
fotografato da Luca Bigazzi (collaboratore, tra gli altri, di Silvio Soldini),
che sfrutta dolly, carrellate e furiose e consistenti immagini affezione per
appropriarsi dello spazio filmico e dei pensieri e delle psicologie dei
personaggi. Lo stile registico di Sorrentino è indubbiamente ridondante, auto
celebrativo e compiaciuto, ma non vedo come possa porsi da ostacolo allo
sviluppo di una narrazione che, in realtà, è inesistente perché basata
sul nulla, sulla vacuità.
“La
grande bellezza” è un film che farà discutere, monumentale, grandioso, e,
probabilmente, trova proprio in questa sua gigantesca “stazza” una serie di limiti
dovuti all’eccessivo proposito sorrentiniano di fare un film sul nulla, di
criticare senza abbattere né scalfire, da amare o da odiare, da prendere o
lasciare. Niente mezze misure.
Che
ben vengano prodotti del genere, tecnicamente curati fino allo sfinimento, in
grado di trasportare lo spettatore, anche grazie agli elaborati movimenti di
macchina, all’interno dello spazio scenico in cui si muovono i personaggi del
film, e di trasformarlo in un giocattolo buttato per caso, come i personaggi
finzionali, in un mondo vano, in un’epoca vana. E’ stata di cattivo gusto, al
limite del kitsch gratuito ed immotivato, una delle sequenze finali, ambientata
sulla terrazza dell’appartamento di Gambardella, con uno stormo di fenicotteri
fallimentarmente ricreato in CGI.
Particolarmente
interessante è la riflessione sull’inganno e sui trucchi di magia (nella
sequenza della sparizione della giraffa), che si pone come metalinguistica,
allargando il proprio campo alla potenza del mezzo cinematografico come
creatore di artifizio e finzione. “La grande bellezza” è un film indubbiamente
imperfetto, ma che trova vitalità nelle sue deficienze, assomiglia ad un treno
che gira, gira, gira, ma non sa dove vuole andare a parare. A tal proposito,
una battuta di Jep Gambardella può riferirsi all’intero film: “ Ah, i nostri
trenini sono i più belli di tutti. E sai perché? Perché non vanno da nessuna
parte”.
Voto: ★★★★